Quattro anni dopo The Hateful Eight (2015), Quentin Tarantino torna nelle sale e lo fa con il suo consueto stile. C’era una volta a Hollywood è una vera e propria celebrazione della sua personale idea di cinema, idea che ci viene presentata attraverso tutto l’estro registico dell’autore statunitense: mélange irrefrenato di generi, pop culture, citazionismo sfrenato, cameo illustri (Al Pacino, Michael Madsen, Kurt Russell, e molti altri) e, soprattutto, un profondo amore verso la settima arte. Il nono film di Tarantino riparte dunque dal consolidato, nella ripresa di quegli elementi postmoderni che gli sono ormai cari, ma con una differenza fondamentale rispetto al passato. C’era una volta a Hollywood mette apertamente in scena una chiara forma di dissoluzione narrativa che, sebbene presente in una certa misura già in precedenza (pensiamo a Le iene, Pulp Fiction, o ai due Kill Bill), appare qui in una veste diversa e con nuove consapevolezze.
A tal proposito, descrivere C’era una volta a Hollywood come un film sull’assassinio di Sharon Tate, come accaduto in diverse sedi, equivarrebbe a minimizzare il senso dell’operazione complessiva attuata da Quentin Tarantino. L’attrice americana, uccisa nel 1969 insieme ad altre quattro persone dai seguaci della Famiglia Manson e interpretata qui da Margot Robbie, è sì una delle figure al centro delle vicende raccontate nella pellicola di Tarantino, ma quasi come una comparsa all’interno di quello che si vorrebbe proporre come un contesto più ampio.
C’era una volta a Hollywood, infatti, è un tentativo di rappresentare un determinato periodo della storia del cinema americano attraverso figure reali e immaginarie, in una commistione tra verità e finzione che mira a restituire il fascino preciso dell’epoca che vuole raccontare. La trama passa dunque in secondo piano, diventando un mezzo funzionale solamente alla ricostruzione storica – e in certi frangenti persino astorica – della Hollywood a cavallo tra gli anni ’60 e gli anni ’70: una Hollywood da un lato condizionata dal declino dello studio system e del cinema classico, e dall’altro lato pronta ad emergere con nuovi autori e narrazioni, dando il via al periodo della Nuova Hollywood.
L’anno in cui è ambientato il film, il 1969, si posiziona dunque in una fase intermedia del cinema americano (anche se due anni prima erano già uscite due opere monumentali e antesignane della Nuova Hollywood come Gangster Story di Arthur Penn e Il laureato di Mike Nichols), con Tarantino che decide di illustrarcela a partire da due figure particolari: l’attore Rick Dalton, interpretato da Leonardo DiCaprio, e la sua controfigura Cliff Booth, interpretata da Brad Pitt (più convincente qui rispetto alla sua tiepida prova in Ad Astra). Rick è un attore di serie televisive, conosciuto perlopiù per il suo ruolo nel fittizio western degli anni ‘50 Bounty Law. Da tempo Dalton ottiene solo ruoli da antagonista in serie minori e crede che la sua carriera sia prossima alla fine. Allo stesso tempo, anche Cliff fatica a trovare lavoro come stuntman dopo l’improvvisa morte della moglie, sospettato di averla uccisa, e dopo un incidente avvenuto con Bruce Lee (interpretato da Mike Moh) sul set della serie Il calabrone verde. I due uomini si supportano a vicenda: Cliff, in particolare, lavora come autista per Rick, dal momento che quest’ultimo non può più guidare a causa del suo alcolismo.
Le storie individuali di Rick e di Cliff, in parallelo al dramma di Sharon Tate, sono tuttavia come anticipato solamente degli elementi ai quali Quentin Tarantino ricorre per mostrarci il contesto proprio del cinema hollywoodiano di fine anni ’60, evidenziando a più riprese e in un forte processo autoreferenziale la sua stessa passione per i prodotti e per l’atmosfera singolare dell’epoca. La pellicola è una grande rievocazione, dalla colonna sonora ricca di hit degli anni ’60 che spazia dal rock al beat al country – insieme al costante commento sottostante dei disc jockey e della pubblicità – sino ad arrivare ai numerosi inserti cinematografici extradiegetici dei film di Rick Dalton, mostrati attraverso poster o a volte attraverso intere sequenze spesso riprese da opere reali, con l’aggiunta dell’interpretazione di DiCaprio in post-produzione.
Non mancano i riferimenti al cinema italiano, con gli spaghetti western di Sergio Corbucci chiamati direttamente in causa in più occasioni, così come l’insano feticismo dei piedi di Quentin Tarantino, qui ai massimi storici. E non manca nemmeno l’onnipresente visione estetizzante della violenza del regista americano, che coinvolge soprattutto le sequenze dedicate alla setta di Charles Manson (da segnalare, tra i membri della Famiglia, l’ottima interpretazione di Margaret Qualley). Chi conosce e ama il cinema di Tarantino si troverà a suo agio con C’era una volta a Hollywood, sempre se sarà disposto ad accettare la frammentarietà espressiva della sua narrazione.
Daniele Sacchi