Negli ultimi 20 anni, la cinematografia della Corea del Sud si è imposta come una delle più interessanti al mondo. Narrazioni imprevedibili, autori (e case di produzione) che non hanno paura di osare, ribaltamenti di generi e di convenzioni consolidate: tutti fattori che hanno permesso, nel tempo, al cinema sudcoreano di conquistarsi prima il palcoscenico dei maggiori festival europei, poi la critica e il pubblico statunitense, con il grande successo lo scorso anno di Parasite di Bong Joon-ho durante l’award season.
Nell’ottica di questo quarto articolo della rubrica CINEGAZE, si è dunque deciso di presentare una lista di 15 titoli che possono essere d’aiuto nel comprendere in cosa consista effettivamente il cinema sudcoreano contemporaneo, una sorta di guida introduttiva – ed assolutamente non esaustiva – sugli autori che ne fanno parte e sulle tendenze principali che la determinano. Si è deciso, inoltre, di limitare a un massimo di 2 la presenza di film di uno stesso regista, in modo da offrire uno sguardo un po’ più ampio su questa particolarissima proposta cinematografica.
Joint Security Area (in foto), Park Chan-wook (2000)
Prima di diventare celebre globalmente grazie alla sua trilogia della vendetta, Park Chan-wook esplode in patria con il suo terzo lungometraggio Joint Security Area, registrando al botteghino della Corea del Sud il più alto incasso di sempre sino ad allora. Nella cornice di un thriller investigativo, Park Chan-wook propone un racconto che oscilla, in perfetto equilibrio, tra l’intensità del dramma e momenti più sereni e pacifici, mostrandoci le vite degli ufficiali della DMZ (la zona demilitarizzata coreana, la striscia di terra che separa le due Coree). Senso di fratellanza, superamento di confini (reali e immaginari), abbandono dell’ideologia: un capolavoro sul valore dell’essere umano.
Oasis, Lee Chang-dong (2002)
Tre anni dopo il meraviglioso Peppermint Candy, Lee Chang-dong si presenta alla Mostra del Cinema di Venezia con un altro film dalle forte implicazioni sociali (aggiudicandosi, peraltro, il Leone d’argento per la miglior regia): Oasis, la singolare storia d’amore tra un uomo, ex galeotto condannato per omicidio, ed una ragazza che soffre di paralisi cerebrale. Due figure ai margini per motivi diversi, ma i cui destini si incrociano in un’opera viscerale sulla solitudine e sull’esclusione, un racconto che chiede molto allo spettatore – come spesso accade nell’esame di situazioni così complesse – ma che sa ripagarlo adeguatamente, muovendosi a cavallo tra critica sociale e poesia.
Oldboy (in copertina), Park Chan-wook (2003)
Oldboy è il secondo lungometraggio della trilogia della vendetta di Park Chan-wook (composta anche da Mr. Vendetta e da Lady Vendetta), nonché adattamento dell’omonimo manga di Garon Tsuchiya e Nobuaki Minegishi. Vincitore del Grand Prix al Festival di Cannes, il film è diventato con il tempo opera di culto – ne è anche stato realizzato un (pessimo) remake americano diretto da Spike Lee – e simbolo universale delle grandi potenzialità della cinematografia sudcoreana. Un’idea narrativa semplice – un uomo viene rapito e tenuto rinchiuso per 15 anni per poi essere improvvisamente liberato, il tutto apparentemente senza motivo – trova uno sviluppo in realtà molto intricato e stratificato su più livelli, tra dilemmi etici e morali, piani sequenza action ed esplosioni di brutalità incontrollabile che ricordano il cinema estremo di maestri come Takashi Miike e Sion Sono.
Memories of Murder (in foto), Bong Joon-ho (2003)
L’opera seconda di Bong Joon-ho è sicuramente uno dei film più interessanti della sua carriera, un thriller e dramma poliziesco che prende spunto dalle vicende riguardanti colui il quale viene considerato come il primo serial killer sudcoreano della storia, mescolandole però con un racconto di finzione (a sua volta ispirato ad un’opera teatrale) dalle tinte noir, non esitando però a divagazioni grottesche e al black humor. È proprio l’imprevedibilità della narrazione, in bilico tra diversi generi, il grande punto di forza del film, così come i numerosi sottotesti sociali e politici, corredati da alcune grandi scelte registiche. Qui trovate la recensione.
Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera, Kim Ki-duk (2003)
Si potrebbero citare tanti film di Kim Ki-duk all’interno di questa lista, vista la sterminata filmografia del regista sudcoreano. Tra le numerose opere realizzate dall’autore, purtroppo recentemente scomparso, Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera è forse una delle più contemplative, proponendosi come un vero e proprio trattato cinematografico sul significato della vita affrontato dal punto di vista di un monaco buddhista. Il film ricorre all’analogia delle stagioni per raccontare la sua vita, il trascorrere del tempo, il rapporto con il maestro e con il mondo attorno a sé, con il lago che fa da sfondo alle vicende del film a darsi come un personaggio a sua volta, un ecosistema che muta con il passare degli anni e delle stagioni esattamente come i suoi protagonisti, componendo così un ritratto sui percorsi della vita di una purezza sensazionale.
Ferro 3, Kim Ki-duk (2004)
Un altro grande film diretto da Kim Ki-duk è Ferro 3 – La casa vuota, Leone d’argento per la regia alla Mostra del Cinema di Venezia, una riflessione profonda sul superamento della solitudine e dell’isolamento attraverso la scoperta dell’altro. Ferro 3 è un’opera di silenzi, di esplorazione dell’alterità, di metafore e di analogie (in particolare, come intuibile dal titolo, sul golf): una storia d’amore che trascende ogni vincolo e che permette ai suoi protagonisti di riaffacciarsi nuovamente sul mondo con uno sguardo rinnovato e purificato da ogni disagio esistenziale. Qui trovate la recensione.
Bittersweet Life (in foto), Kim Jee-woon (2005)
Un gangster riceve l’ordine dal suo boss di tenere sotto controllo la sua giovane amante, sospettoso di un tradimento da parte della ragazza. Sembrerebbe l’inizio di un gangster movie tipico del quale, volendo, possiamo già intuirne gli sviluppi. In tal senso, Bittersweet Life di Kim Jee-woon è un film che non si preoccupa di sconvolgere lo spettatore sul piano puramente narrativo, bensì si propone come un character study teso ed efficace del suo protagonista, circoscrivendolo nell’orizzonte di un neonoir incredibilmente violento che sa, però, quando lasciare spazio ad atmosfere più minimali e contemplative (pensiamo, ad esempio, alla splendida conclusione).
Il buono, il matto, il cattivo, Kim Jee-woon (2008)
Sempre di Kim Jee-woon è anche Il buono, il matto, il cattivo, un western che omaggia Il buono, il brutto, il cattivo di Sergio Leone già a partire dal suo titolo ma che, ad eccezione di qualche riferimento, si discosta in realtà molto dal capolavoro del regista italiano sul piano formale. Ci troviamo infatti di fronte ad un film dalla fortissima impronta action, un blockbuster di chiara ispirazione occidentale nella spettacolarizzazione dei suoi eventi che si dimostra però capace di giocare con i generi, non disdegnando incursioni anche nel noir e nel terreno della black comedy. Sicuramente una divagazione interessante rispetto ai film citati sino ad ora.
The Man from Nowhere, Lee Jeong-beom (2010)
The Man from Nowhere di Lee Jeong-beom è un’altra esplorazione filmica sul tema della vendetta condotta dal cinema sudcoreano che, come nel caso de Il buono, il matto, il cattivo, strizza però l’occhio al pubblico occidentale – in maniera chiaramente diversa – pur mantenendo una propria integrità di fondo. Rispetto a intrecci esistenzialisti (Bittersweet Life) o degradanti e senza speranza (Oldboy), The Man from Nowhere costruisce il proprio percorso narrativo sull’intenso legame tra un gangster e una bambina, coniugando sapientemente esibizione violenta con un sentimentalismo puro e sincero.
Right Now, Wrong Then (in foto), Hong Sang-soo (2015)
Vincitore del Pardo d’oro al Festival di Locarno e del premio per il miglior attore a Jung Jae-yeong, Right Now, Wrong Then è un’opera sorprendente e spiazzante. Il film di Hong Sang-soo, nella sua prima parte, ci presenta l’incontro tra un regista e una pittrice: i due trascorrono una giornata insieme, si conoscono e ci permettono di entrare in contatto con i loro universi personali. Nella seconda parte, il regista rimescola le carte in tavola: la giornata ricomincia, le premesse sono le stesse, ma gli eventi cambiano. Sarebbe limitativo definire l’operazione di Hong Sang-soo un mero esercizio di stile: si tratta, invece, di una profonda analisi sull’essere umano, sul modo in cui ci si interfaccia con l’altro e sulla percezione che diamo di noi stessi.
The Wailing, Na Hong-jin (2016)
La rivoluzione del cinema sudcoreano contemporaneo passa anche attraverso il genere horror. The Wailing di Na Hong-jin è in tal senso l’esempio migliore da chiamare in causa, dal momento che concentra nella sua narrazione un insieme di elementi eterogenei – dall’epidemia virale sino ad arrivare alle possessioni demoniache – che lo rendono un’esperienza terrificante sotto molteplici punti di vista. Grazie proprio alla varietà sia di situazioni, sia di questioni esistenziali e metafisiche che emergono costantemente durante la visione del film, The Wailing riesce ad andare oltre la matrice di genere e proporsi come un esempio di grande espressione cinematografica. Qui trovate la recensione.
Train to Busan, Yeon Sang-ho (2016)
Per continuare con le produzioni horror, Train to Busan rientra senza ombra di dubbio tra le opere chiave per il genere nel contesto della Corea del Sud. Il film di Yeon Sang-ho mostra l’approccio del cinema sudcoreano al filone della cosiddetta zombie apocalypse, soffermandosi in particolar modo sul rapporto tra un uomo e la figlia. La pandemia zombie esplode mentre i due sono in viaggio in treno, destinazione Busan, per incontrare la madre della bambina. Il virus ha già raggiunto il treno e il film non è nient’altro che racconto di sopravvivenza, messa in scena degli istinti, autoconservazione e protezione dell’altro all’interno di un inferno – il treno – dal quale non sembra esserci alcuna fuga possibile.
A Taxi Driver (in foto), Jang Hoon (2017)
Con diversi anni come assistente di regia di Kim Ki-duk alle spalle, Jang Hoon decide finalmente di mettersi dietro alla macchina da presa in prima persona e, dopo alcuni buoni film e un grande successo (il war movie The Front Line), realizza quella che probabilmente è la sua opera migliore: A Taxi Driver. L’onnipresente Song Kang-ho – ovunque anche in questa lista – interpreta un tassista a Seul. Un giornalista tedesco (Thomas Kretschmann) si serve dei suoi servizi per raggiungere Gwangju, così da documentare in prima persona la burrascosa rivolta popolare dell’80. A cavallo tra denuncia sociale e road movie atipico, Jang Hoon indaga un evento importante della storia del suo Paese attraverso due punti di vista molto differenti, ricorrendo ad un connubio di personalità estremamente singolare ma sorprendentemente efficace.
Burning, Lee Chang-dong (2018)
Burning, ossia un ritratto della Corea del Sud come un Paese diviso in due: da un lato la ricchezza, il mito e il culto dell’Occidente, la percezione della libertà; dall’altro lato la povertà, la precarietà, le insicurezze nei riguardi del futuro. Nell’orizzonte di un contesto sociale così incerto, Lee Chang-dong articola un dramma intenso ispirato a William Faulkner e ad Haruki Marukami, con al centro la storia di un uomo, Jong-su, e di una donna, Hae-mi. Sarà il loro rapporto con l’enigmatica figura di Ben (interpretato da un eccezionale Steven Yeun) a rendere evidenti le profonde differenze culturali e valoriali del Paese, in un vero e proprio manifesto della solitudine capace di affrontare le tensioni interiori dell’individuo con una grande consapevolezza e realismo. Qui trovate la recensione.
Parasite, Bong Joon-ho (2019)
Infine, arriviamo dunque a Parasite. L’opera di Bong Joon-ho che ha conquistato pubblico e critica in tutto il mondo segue le coordinate tratteggiate da Lee Chang-dong in Burning, muovendosi però su un piano stilistico molto differente, sicuramente dal sapore più universale rispetto al linguaggio cinematografico più criptico e sofisticato del collega. L’intreccio ci racconta del conflitto identitario tra due famiglie, una agiata e una invece molto povera, con la seconda che riuscirà attraverso una serie di stratagemmi a farsi assumere dalla prima. Il risultato è un’opera arguta sulla differenza sociale in un contesto dove anche un’azione radicalmente sovversiva può essere percepita come lodevole e compassionevole. Qui trovate la recensione.
Daniele Sacchi
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