L’atto di comunicare attraverso l’apparato formale di un film rientra tra gli elementi essenziali con cui i grandi autori spesso cercano di veicolare la propria visione estetica e la propria poetica cinematografica. Comprendere il “come” per cercare di afferrare il “cosa”, senza necessariamente scindere tra due piani che vanno pensati come co-esistenti, è una delle tante vie percorribili per muoversi tra i percorsi dell’immaginario tratteggiati dalla settima arte. Uno di questi come, una forma del cinema antica quanto lo stesso e ancora oggi usata spesso come medium espressivo, è il piano sequenza.
Già ne L’uscita dalle officine Lumière (La sortie de l’usine Lumière, 1895) ne possiamo scorgere una prima embrionale applicazione. In assenza del concetto di montaggio, in molti esempi del cinema delle origini troviamo infatti riprese uniche, lunghe e statiche, che esauriscono il loro intero svolgimento narrativo nello spazio di un’unica sequenza. Con l’arrivo del montaggio, l’idea di organizzare l’immagine cinematografica secondo questa modalità scompare per molto tempo – se non per qualche eccezione, pensiamo ad esempio alla sequenza d’apertura di Scarface (1932) di Howard Hawks o al cinema di Jean Renoir – e per averne un’effettiva teorizzazione dobbiamo attendere un intervento di André Bazin sul cinema di Orson Welles.
Welles, infatti, rivoluziona il linguaggio cinematografico non solo rompendo con la struttura classica del racconto lineare, ma anche operando nello spazio della singola inquadratura. Il piano sequenza wellesiano di Quarto potere (Citizen Kane, 1941), ad esempio, non ragiona solamente in termini di durata, ma anche sulla composizione dell’immagine e, di conseguenza, sulle informazioni trasmesse allo spettatore nel singolo frame. Modulando la profondità di campo e, dunque, gli elementi che possono apparire sullo schermo in diversi piani, le inquadrature di Quarto potere si propongono come unità narrative stratificate, capaci talvolta di intersecarsi con altre unità e azioni.
Nell’incipit de L’infernale Quinlan (Touch of Evil, 1958), il piano sequenza agisce invece in modo differente, quasi come una spettacolare sequenza-evento all’interno del film. Nello specifico, Welles mostra allo spettatore un personaggio che posiziona una bomba nel bagagliaio di un’automobile. La durata dell’inquadratura coincide con la durata del rappresentato, i personaggi a bordo del veicolo sono inconsapevoli del loro destino mentre lo spettatore è “costretto” a guardare in tempo reale lo svolgersi dell’evento. La parola chiave è suspense, sensazione amplificata in questo caso dalla peculiare scelta formale del regista. Similmente si era mosso proprio il maestro stesso della suspense, Alfred Hitchcock, nel suo Nodo alla gola (Rope, 1948), composto da una decina di piani sequenza e architettato così da apparire allo sguardo spettatoriale come un’unica ripresa continua.
Nel caso del Neorealismo, da Rossellini a De Sica, il piano sequenza si inserisce invece in un nuovo discorso, quello zavattiniano del pedinamento del reale, proponendosi come una delle tante modalità formali attraverso le quali ricorrere per cercare di cogliere la verità attraverso l’immagine cinematografica. Il cinema della Nouvelle Vague, a sua volta, adotta il piano sequenza per rendere manifeste precise istanze espressive autoriali, come possiamo osservare nella lunga passeggiata per gli Champs-Ėlysées di Jean-Paul Belmondo e Jean Seberg in Fino all’ultimo respiro (À bout de souffle, 1960) di Jean-Luc Godard. Similmente, anche un certo cinema americano ha ragionato in questi termini più esplicitamente espressivi, dall’incipit de La conversazione (The Conversation, 1974) di Francis Ford Coppola – che anticipa l’umore ossessivo e paranoico della pellicola – sino ad arrivare al piano sequenza in apertura de I protagonisti (The Player, 1992) di Robert Altman, che ne enfatizza il carattere metacinematografico.
A questo punto, occorre però una precisazione: non tutte le inquadrature lunghe consistono sempre in piani sequenza. È utile, infatti, differenziare questa specifica tecnica cinematografica dal long take. Se da un lato il piano sequenza consiste nello svolgersi di una o più sequenze narrative all’interno di un’unica ripresa, dall’altro lato il long take si propone come un’unica ripresa che non presenta o non esaurisce necessariamente un contenuto narrativo. Il confine è sottile e non sempre chiaramente identificabile.
Pensiamo ad esempio al cinema di Andrej Tarkovskij, di Tsai Ming-liang o di Béla Tarr. L’applicazione del piano sequenza/long take ha la caratteristica peculiare, in questi casi, di rimandare ad altro, spesso a qualcosa che è strettamente legato alla visione autoriale di ciascun regista. Le manipolazioni temporali permesse dalla dilatazione della durata dell’inquadratura hanno un’importanza notevole nel cinema tarkovskijano, ne amplificano l’aspetto contemplativo e trascendentale e, nel caso delle sue immagini più evocative (la sequenza della candela in Nostalghia, del granaio incendiato ne Lo specchio, della Zona in Stalker) ne accentuano l’impatto. Nel cinema di Tsai Ming-Liang, il piano sequenza appare in continuità con l’idea di slow cinema proposta dal regista taiwanese, un altro esempio di cinema contemplativo che vive di silenzi, di continue ripetizioni degli stessi gesti, di lunghi incontri e confronti con l’alterità. Per Béla Tarr, da Sátántangó (1994) a Il cavallo di Torino (A torinói ló, 2011), il piano sequenza/long take aiuta a trasmettere allo spettatore la sensazione di un peso esistenziale incolmabile, rendendo l’immagine cinematografica una pura espressione della fine.
Oggi, grazie all’avvento delle nuove tecnologie e soprattutto del digitale, ricorrere al piano sequenza è diventato più semplice rispetto al passato e una pratica più diffusa, anche in campo seriale (True Detective, Mr. Robot, The Haunting of Hill House). Permangono, in ogni caso, applicazioni singolari. Con Arca russa (Russkij Kovcheg, 2002), Aleksandr Sokurov si serve di un’unica ripresa continua nel Palazzo d’Inverno di San Pietroburgo, mettendo in scena un peculiare viaggio nella storia russa. Sebastian Schipper, con il suo Victoria (2015), riesce nella stessa impresa, riproponendo però un’idea di una durata filmica coincidente con quella reale. Nel caso di opere come Birdman (2014) di Alejandro González Iñarritu o 1917 (2019) di Sam Mendes, si ritorna invece a Nodo alla gola con la presenza di una serie di piani sequenza assemblati lungo tutta la durata del film che, aiutati dalle innovazioni nel campo degli effetti visivi, restituiscono l’impressione di una singola ripresa continua.
Nella contemporaneità sono emerse, poi, nuove idee e possibilità. In Oldboy (2003) di Park Chan-wook e in The Protector (Tom-Yum-Goong, 2005) di Prachya Pinkaew è possibile rilevare come l’uso del piano sequenza in un contesto più action possa permettere di raggiungere dei gradi di spettacolarità elevati, in contrasto ad esempio con la frenesia del montaggio di un certo cinema d’azione americano. Nel cinema di Alfonso Cuarón, il piano sequenza diventa vera e propria marca stilistica, capace di enfatizzare i momenti più suggestivi e di tensione drammatica dei suoi film, come nell’incipit di Gravity (2013), come nella scena dell’automobile e nella rappresentazione degli scenari di guerra de I figli degli uomini (Children of Men, 2006), o come nella splendida sequenza sulla spiaggia in Roma (2018). Ancora, Kornél Mundruczó ha mostrato più recentemente con il piano sequenza del parto di Pieces of a Woman (2020) come si possa mostrare il dolore e il trauma della perdita in un modo estremamente efficace. Approcci differenti al piano sequenza, dunque, che mirano a rappresentare situazioni, pensieri, realtà ed emozioni varie e multiformi, segno di come il cinema sia sempre in costante ricerca di evolvere il proprio linguaggio per amplificare al meglio ciò che intende comunicare e trasmettere.
Daniele Sacchi
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