Con Civil War, Alex Garland voleva forse realizzare il suo I figli degli uomini. Pur non essendo mai brillante quanto l’opera di Alfonso Cuarón, la prospettiva sulla realtà affrontata dal film di Garland è molto simile, a partire dal collasso delle istituzioni democratiche sino ad arrivare al progressivo sfaldamento della società civile. E da questo punto di vista Civil War convince. Forse non fino in fondo, lasciando troppo sulla superficie il suo discorso fondante in favore della messa in scena di un’estetica spettacolarizzante, ma perlomeno il film di Garland riesce a graffiare con forza grazie al vigore delle sue immagini.
In Civil War, gli Stati Uniti sono allo sbando. Diverse forze regionali si sono dichiarate indipendenti dal governo centrale, guidato da un Presidente autoritario al terzo mandato (interpretato da Nick Offerman), e ormai la guerra civile imperversa in tutto il territorio. La rinomata fotoreporter Lee Smith (Kirsten Dunst) accetta la proposta di intervistare il Presidente insieme al collega Joel (Wagner Moura), l’aspirante giornalista Jessie (Cailee Spaeny) e il veterano Sammy (Stephen McKinley Henderson), ma per portare a termine l’incarico il team dovrà raggiungere la Casa Bianca, un’operazione decisamente ardua visto lo scenario burrascoso in cui si trova il Paese.
Civil War non è un film interessato a fornire un background esteso di tutto quello che sta accadendo “dietro le quinte” rispetto alla sua premessa iniziale. Il film di Garland, invece, trascina lo spettatore in medias res, le alleanze sono ben consolidate (tra cui una pittoresca unione d’intenti tra California e Texas) e la guerra civile sta già raggiungendo il suo climax. Il punto di partenza reale è il sentimento di polarizzazione tipico del clima politico statunitense, portato qui ai suoi risvolti più estremi. Si tratta ovviamente di un’arma a doppio taglio: da un lato è evidente il tentativo da parte di Garland di non voler puntare il dito esplicitamente verso determinate correnti politiche, lasciando un po’ sospese le dinamiche vigenti tra le varie alleanze, mentre dall’altro lato è evidente anche il motivo contrario, in una sorta di paradosso costitutivo che, in generale, rischia di fare più male che bene al film.
Prendiamo ad esempio il personaggio interpretato da Jesse Plemons, un miliziano nazionalista apertamente ispirato alle posizioni estremiste della destra statunitense. O, ancora più nello specifico, pensiamo alle diverse impostazioni giornalistiche dell’ensemble di fotoreporter al centro delle vicende nel film, un mix di cautela (Sammy), stoicismo e ricerca della verità (Lee), ambizione incontrollata (Jessie) e un certo giustizialismo (Joel). Garland, insomma, sembra voler stare con due piedi in una scarpa, rischiando a più riprese di smarrirsi in un semplicistico caos identitario e perdere un po’ di vista il senso complessivo dell’intera operazione, pur con l’ardore provocatorio e il pregio di voler stimolare una riflessione proficua sul tema.
Fortunatamente, ad accompagnare l’incertezza orientativa del film sussiste una precisa visione estetica, meno inquieta rispetto alle incursioni cerebrali delle opere precedenti del regista britannico, ma più esplicita, diretta e pungente. L’immagine fotografica – e, di conseguenza, quella cinematografica – si impone come la reale protagonista del film, ambigua, enigmatica, misteriosa, tesa e in perenne oscillazione tra la sua funzione testimoniale e il suo potere iconografico. In tal senso, a differenza di un’operazione simile (ma fallimentare) come Il mondo dietro di te di Sam Esmail, Civil War nasconde le sue imperfezioni centralizzando l’immagine come sua unica reale priorità, esaltandola in particolar modo nel movimento contrapposto che avvicina e allontana di continuo i personaggi di Lee e Jessie, un rapporto – che, di nuovo, riguarda anche l’immagine stessa – che trova la sua sublimazione nella spettacolare sequenza che chiude il film.
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Daniele Sacchi