Sul finire degli anni ’80, dopo aver girato il primo capitolo della trilogia di Koker Dov’è la casa del mio amico?, Abbas Kiarostami entra in contatto con la singolare storia di Hossain Sabzian. Sabzian è un uomo accusato di frode dalla famiglia Ahankhah. Il suo crimine? Essersi spacciato per il regista Mohsen Makhmalbaf e aver convinto la famiglia Ahankhah a partecipare in veste di attori nel suo nuovo film. Con Close-Up, vero e proprio capolavoro neorealista iraniano, Kiarostami mette in scena il caso di Sabzian esplorando il rapporto tra reale e fittizio nel medium cinematografico, instaurando un discorso profondo sul performativo e sull’arte, in stretta simbiosi con un commentario tagliente teso a mettere in luce le contraddizioni della società iraniana.
L’ambizione dal sapore quasi documentaristico della pellicola è evidente a partire dalla scelta di ricorrere agli stessi protagonisti della vicenda come attori principali. Ma Close-Up non si limita a questo e fa un passo ulteriore, perseguendo una via duplice che apre le proprie frontiere a numerosi percorsi dell’immaginario. Da un lato, vi è innanzitutto la volontà di ricostruire gli eventi passati, ricorrendo agli stilemi della rievocazione e assorbendo il registro della fiction. Dall’altro lato, vi è invece il processo giudiziario ai danni di Sabzian, ripreso direttamente in tribunale.
È esattamente in questo scarto duplice che Close-Up manifesta un ulteriore dualismo, questa volta tecnico (ma dalle inevitabili conseguenze simboliche), esplicitato apertamente all’inizio del processo da Kiarostami stesso, il quale figura a sua volta nel film. Alla lente panoramica che riprende la totalità degli ambienti sussiste un movimento opposto e contrario, una lente focalizzata interamente su Sabzian, messo a nudo durante la sua testimonianza dai close-up che mettono tra parentesi la cornice oggettiva per instaurare, al contrario, un incontro soggettivo tra l’uomo e lo spettatore. Kiarostami scardina il rapporto tra il segno e il referente, alla ricerca di un superamento di ogni possibile “datità”, nella messa in scena di quell’incontro tra il Reale e il verosimile che ritornerà poi anche nei suoi lavori successivi, come E la vita continua e Sotto gli ulivi.
Non marginale in Close-Up è anche la denuncia implicita circa le ingiustizie sociali vigenti in Iran. Il giornalista che smaschera Sabzian – un estimatore di Oriana Fallaci – è a caccia di uno scoop che gli possa permettere di guadagnare un po’ di denaro. Lo stesso Sabzian è un uomo povero, divorziato, con a carico due figli, una figura smarrita che si autolegittima solamente attraverso la sua passione per il cinema e, in particolare, per Il ciclista di Makhmalbaf. Persino il processo ai suoi danni, di fatto, è una farsa: la frode di cui Sabzian è colpevole riguarda solamente il denaro mai restituito che la famiglia Ahankhah gli aveva prestato per prendere il taxi. Ciò che Close-Up rivela veramente sono le trame sottese di una società intollerante nei confronti di chi fa arte, anticipando le persecuzioni odierne di cineasti come Jafar Panahi e Mohammad Rasoulof.
Fondamentale, in tal senso, è il prendere coscienza che Sabzian, attraverso le sue qualità performative, il suo impersonare, il suo fingere, sia riuscito ad imporsi, a modo suo, come un effettivo attore e artista. Il rovesciamento prospettico messo in atto da Kiarostami è totale, tanto che i margini di ciò che è considerabile come veritiero e di ciò che invece non lo è si appiattiscono sino a diventare indistinguibili l’un dall’altro. Il culmine di questo processo avviene nel momento in cui il film pensato da Sabzian finisce per sovrapporsi con il Reale stesso, in quell’incontro poetico e riconciliatorio con Makhmalbaf (ancora una volta ritorna la dimensione duplice) che attraverso una sequenza ruvida catturata da lontano, con un sonoro grezzo ed imperfetto, riesce nonostante tutto ad assurgere al sublime.
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Daniele Sacchi