Autonomous sensory meridian response, o più brevemente ASMR. Si tratta di una sensazione specifica, un formicolio piacevole che può coinvolgere diverse parti del corpo grazie all’azione di determinati stimoli visivi e/o uditivi. Da tempo esercitare l’ASMR per la gratificazione o il relax altrui è diventato comune su Internet, e su piattaforme come YouTube o Twitch è possibile imbattersi in numerose personalità che mettono in pratica una serie di tecniche per coinvolgere il proprio pubblico in tal senso. Il regista britannico Peter Strickland, affascinato dalle possibilità dell’ASMR, ha cercato di concentrarne le potenzialità nel suo cortometraggio Cold Meridian (2020).
Spinto da alcune suggestioni già riscontrabili nel grottesco In Fabric (2018) – un lungometraggio horror dalla natura weird che vede al centro della sua narrazione un vestito rosso posseduto da un’entità maligna – Cold Meridian spinge il discorso che risiede alla base delle applicazioni dell’ASMR verso una direzione arthouse, realizzando così un’operazione sicuramente interessante da un punto di vista concettuale, ma forse un po’ troppo abbozzata ed eccessivamente criptica per cogliere davvero nel segno. Il corto, girato interamente in bianco e nero, ci immerge innanzitutto nella dimensione online dell’ASMR, il luogo/non-luogo in cui trova effettivamente la sua diffusione maggiore. Una performer realizza video ASMR personalizzati per i suoi viewers, attraverso una coazione a ripetere degli stessi gesti che dovrebbe suscitare (triggerare), come anticipato, formicolii e sensazioni piacevoli una volta percepiti in determinate condizioni dagli spettatori.
Il “meridiano sensoriale” – un’espressione altisonante per indicare la reazione fisica ai trigger dell’ASMR – nel corto di Peter Strickland è però “freddo”, piatto, anedonico. I video realizzati dalla performer sono asettici e presentati senza calore, mentre le parole pronunciate dalla sua voce sono sussurrate senza alcuna emozione e personalità. Stimoli tattili e uditivi sono presenti, ma non sono veicolati da alcun trasporto umano. Presto, sia negli occhi di chi assiste a quello che di fatto è uno spettacolo – atipico, sì, ma che per natura prevede una componente interpretativa – sia nello sguardo degli stessi attori-creatori, l’immaginazione inizia a riempire il vuoto lasciato dalla freddezza.
Le sonorità si fanno più oscure, le immagini – semplici fotogrammi – si fanno più intense: una danza passionale, un amore carnale, forse violento, appaiono ora lo schermo. Da disegno a fotografia, l’immagine si riempie del calore dei corpi, ma l’immobilità non ce lo fa percepire. Ciò che resta è solamente l’immagine fredda e dura dell’atto nel suo compiersi, senza contesto né giudizio. Quando sopraggiunge il movimento, nel momento in cui finalmente sembra esserci spazio per un ritorno al reale, Strickland ci riporta invece a quella coazione a ripetere statica, piacevole (o forse no), dell’inizio: la performer immortalata mentre il compagno le lava i capelli. Lo sguardo spettatoriale, quasi finalmente smosso nelle sequenze appena precedenti, torna alla staticità della reiterazione del medesimo gesto. L’esperienza del viewer precedente è conclusa e ora tocca a qualcun altro, Cold Meridian si conclude ma qualcuno continua a guardare. In pochi minuti, Strickland ragiona sull’ASMR, sul movimento, sul senso del cinema e della performance: tanta carne al fuoco affrontata troppo brevemente per lasciare davvero il segno.
Daniele Sacchi