Pochi giorni fa si è spento all’età di 87 anni William Friedkin, uno dei maestri della New Hollywood che ha segnato profondamente il cinema statunitense con grandissimi film come Il braccio violento della legge (The French Connection) e L’esorcista. Lo omaggiamo con uno sguardo retrospettivo su Cruising, controverso cult movie del 1980 spesso bistrattato e ingiustamente poco considerato. Il film venne tacciato di omofobia alla sua uscita per una rappresentazione della comunità omosessuale giudicata come macchiettistica ed eccessivamente stereotipata, una forte accusa inquadrabile nell’ottica delle battaglie civili dei movimenti di liberazione sessuale post-anni ’60 che tuttavia non esauriva tutto quello che il film di Friedkin aveva (e ha ancora) da offrire.
La repulsione attivista nei confronti di Cruising, da un certo punto di vista, non sembra essere poi tanto lontana dalle odierne pretese social che contaminano il cinema e la serialità nel tentativo di promuovere un immaginario utopico ed ideale in cui tutto è “sicuro” e in cui nessuno può sentirsi offeso. Friedkin, nonostante l’ostracismo che ha colpito il film anche in fase di produzione, persegue comunque in Cruising la sua provocatoria indagine identitaria con una dignità autoriale encomiabile, un ultimo vagito di quelle libertà creative figlie della New Hollywood che ad inizio anni ’80 stavano ormai collassando. Perché Cruising, di fatto, non è poi così lontano dalle dinamiche narrative, tematiche e “di messaggio” tipiche del cinema precedente di Friedkin. Vi è l’amore per la natura dell’intrigo, specialmente l’intreccio poliziesco de Il braccio violento della legge, vi è la marginalità sociale de Il salario della paura, ma anche la tensione fondamentale – ed imperante – tra il bene e il male de L’esorcista.
A guidare questa spirale discendente nell’animo umano è l’agente Steve Burns (interpretato da Al Pacino), incaricato dal capitano dell’FBI (Paul Sorvino) di indagare sulla morte di alcune persone omosessuali. Il compito dell’agente Burns è di infiltrarsi sotto copertura negli ambienti della comunità omosessuale newyorkese, nel tentativo di individuare il serial killer colpevole di questi efferati omicidi. Entrato nel mondo dei gay club del quartiere Greenwich Village, l’agente Burns rimane completamente assorbito da un contesto apparentemente lontano dalla sua persona. Il contatto con questa dimensione-altra, fatta di codici linguistici nuovi, di abiti di cuoio e di pratiche erotiche considerate “proibite” è solamente l’inizio di un percorso di scoperta che lo condurrà a riflettere profondamente su se stesso e su tutto ciò che lo circonda.
Cruising, quasi come un proto-Manhunter, scardina la mondanità del Reale per esplorare le vie del desiderio, intrecciando questo discorso dalla matrice identitaria con le peculiarità del thriller urbano. È chiaro, però, come la direzione principale tracciata da Friedkin sia proprio il focalizzarsi sulle cesure, sulle disconnessioni e sulle fratture che permettono alla dimensione desiderante di emergere, con l’elemento più strettamente thriller che rimane perlopiù sullo sfondo, anche a causa dei diversi tagli di montaggio e dei numerosi cambiamenti che il regista ha dovuto apportare al film per evitare ire ancora più distruttive nei confronti della sua arte. Nel complesso è evidente come Cruising non sia l’opera più riuscita di Friedkin, proprio a causa delle eccessive aperture scaturite dal montaggio conclusivo del film. Il discorso di depersonalizzazione identitaria che coinvolge le vicende relative al serial killer, ad esempio, non punge fino in fondo, pur ribadendo l’anarchia destrutturante che permea la pellicola dal primissimo omicidio messo in scena sino agli ultimi istanti del film. Ciononostante, Cruising resta comunque un perturbante viaggio alla scoperta delle trame del desiderio umano, un viaggio prezioso che merita assolutamente di essere intrapreso.
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Daniele Sacchi