Trattare di uno dei più feroci e disumani serial killer della Storia non è affatto materia semplice. Lo sa bene Ryan Murphy, che con la miniserie in 10 episodi Dahmer – Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer guarda direttamente in faccia al mostruoso nel suo vissuto e nella barbarie, indagando le derive del Reale nel loro dispiegarsi incomprensibile. Perché Jeffrey Dahmer, il cui cervello è stato persino conservato per un anno per scopi scientifici nel tentativo di razionalizzare l’impossibile, è l’incarnazione di una tendenza tirannica, di un’archetipica spinta umana nella prevaricazione e nella sottomissione dell’alterità alle proprie illogiche azioni efferate, soverchianti, brutali.
Da questo punto di vista, Dahmer, così come i vari Gacy, Gein, Rader, veicolano attraverso la loro mostruosità una carica ossessiva tanto orripilante quanto intrinseca nell’essere umano, presentandola nella sua forma più distorta e perversa. La difficoltà gargantuesca nel portare in scena questo tipo di figure è facile da immaginare, specialmente nel momento in cui diventa necessario esaminare anche il contesto sociale che le circonda. In tal senso, Dahmer – Mostro riesce a catturare con ottime intuizioni l’abiezione umana, il macabro e l’osceno brillando in particolar modo proprio nel tratteggiare la figura di Dahmer stesso (interpretato da un incredibile Evan Peters), esitando forse troppo, però, nel cercare di offrire un quadro complessivo sufficientemente focalizzato sul tema altamente spinoso che desidera affrontare.
In termini puramente cinematografici, la serie di Ryan Murphy è sublime nei momenti in cui trascina lo spettatore a stretto contatto con la materia orripilante, non appellandosi però ad un “facile” fattore shock ma affidandosi ad un voyeurismo empatico che cerca di istituire un’effettiva connessione con le vittime, invece di rischiare di avvicinare alla brutalità distruttiva del loro carnefice. Dahmer – Mostro, fortunatamente, non si risolve in una becera pornografia del dolore, sebbene eticamente vi siano certamente dei dubbi su alcune libertà eccessive che Murphy e il co-autore Ian Brennan si sono presi nel raccontare alcuni eventi, suscitando diverse polemiche da parte delle famiglie delle vittime.
È il caso del sesto episodio, durante il quale lo show Netflix reinventa a piacere il rapporto tra Dahmer e una delle sue vittime, Tony Hughes (Rodney Burford), allontanandosi sensibilmente dagli eventi reali in quella che, quasi paradossalmente, appare come una delle vicende più interessanti raccontate nella serie. A tal proposito, ciò che impedisce realmente a Dahmer – Mostro di elevarsi sopra la media nel panorama seriale contemporaneo non dipende assolutamente dalla questione della verosimiglianza. Il cinema e la serialità hanno il compito di lasciare da parte l’ossessione per il verosimile e farsi trascinare pienamente dalle frontiere dell’immaginario, persino quando si tratta di reinterpretare e indagare da vicino il Reale. Ampie riletture di fatti realmente accaduti, sebbene possano essere poste in questione eticamente, sono cinematograficamente legittime. A fronte di questa premessa, il problema essenziale di Dahmer – Mostro sussiste in realtà, come anticipato, nell’inquadramento generale di tutto ciò che propone in un’ottica più ampia.
La serie si preoccupa, ad esempio, di reiterare in diversi momenti le indagini lacunose condotte dalla polizia nei confronti di Dahmer, causate da errori di giudizio, dal pregiudizio razziale nei confronti delle vittime e dall’omofobia. L’errore più grande, che porta infine ad inquadrare Dahmer – Mostro come un’operazione di mero retelling del caso Dahmer e poco altro, risiede nello specifico nel centralizzare l’ossessione moralistica del «si poteva evitare» adottandola come mantra unico dell’intera serie, finendo per cadere – specialmente negli ultimi sterili episodi – in una retorica spicciola e banale dal sapore tipicamente netflixiano.
Segni evidenti di questa precisa “missione” portata avanti da Netflix sono riscontrabili in sequenze come quella in cui due dei peggiori ufficiali visti in azione nel corso della serie vengono premiati come agenti dell’anno, un siparietto (peraltro inventato) inserito solamente per attribuire alla serie una coltre pseudo-documentaristica e da commentario sociale che stona con i picchi raggiunti nei primissimi episodi, quando il tentativo di dare una forma specifica al mostruoso e alle sue derive è invece predominante. Nonostante le cadute di stile, Dahmer – Mostro nel complesso appare comunque come un buon prodotto guidato da grandi interpretazioni (oltre a Peters, si segnalano anche le ottime prove di Richard Jenkins nel ruolo del padre di Dahmer e di Niecy Nash nei panni della vicina di casa Glenda Cleveland) e da una messa in scena in grado di sottolineare, nei suoi momenti più morbosi e cruenti, quanto a fondo può cadere l’essere umano nel suo lasciarsi trascinare dalle sue distruttive perversioni latenti.
Daniele Sacchi