Deadpool & Wolverine, la recensione del film

Deadpool & Wolverine

La vera domanda da porsi per cercare di analizzare fino in fondo un film come Deadpool & Wolverine è quale sia il suo reale pubblico di riferimento. La risposta a questa domanda è molto semplice. Il pubblico a cui il film di Shawn Levy (ma forse dovremmo riferirci direttamente a Kevin Feige) parla è quello che all’esperienza cinematografica tradizionale preferisce la dopamina rilasciata al riconoscimento di ogni singolo cameo messo in scena. È il pubblico, d’altronde, che ha siglato alcuni dei più grandi successi al box office per la Marvel, quello di Avengers: Endgame (dove almeno vi era l’idea del compimento di un percorso) e di Spider-Man: No Way Home, una massa importante per i bilanci che la Marvel deve necessariamente reimparare a coccolare dopo i recenti flop commerciali.

In tal senso, è inutile ricercare Deadpool 3 in Deadpool & Wolverine. Sin dall’acquisizione disneyana della Fox e dall’annuncio dell’entrata ufficiale del personaggio nel Marvel Cinematic Universe, il suo destino era irrimediabilmente segnato. La funzione di Deadpool nel film consiste infatti nel fare da collante tra il passato produttivo della Fox e il presente dell’MCU, adeguandosi così alle dinamiche multiversali dell’attuale corso Marvel. A differenza però di Spider-Man: No Way Home, opera-marchetta interamente costruita su sequenze “cameistiche” pensate per il marketing e attorno alle quali non vi era assolutamente nient’altro, in questo Deadpool & Wolverine Feige e co. cercano, perlomeno nelle fasi iniziali del film, di proporre una parvenza di racconto.

Per qualche minuto infatti, Deadpool & Wolverine è effettivamente Deadpool 3. Dopo un’apertura situata di fronte alla tomba del Logan di James Mangold, un flashback ci mostra Wade Wilson (Ryan Reynolds) alle prese con la sua ordinarietà post-finale di Deadpool 2. Wade, che si è lasciato con la compagna storica Vanessa (Morena Baccarin), lavora ora come venditore di auto dopo aver cercato di entrare senza successo negli Avengers. Questo fugace ritorno alla familiarità del passato lascia presto spazio alle derive cross-mediali dell’MCU. Durante la sua festa di compleanno, infatti, Wade viene prelevato dalla TVA, un’organizzazione che monitora le linee temporali introdotta nella serie Loki, e fa la conoscenza di Mr. Paradox (Matthew Macfadyen), il quale lo avverte del deterioramento della sua realtà a causa della morte di Wolverine (Hugh Jackman) portata in scena appunto nel film di Mangold.

A questa premessa, seguono due ore di salti tra vari scenari, incontri con numerose varianti (i parallelismi con la serie Loki sono evidenti) e infiniti camei autoreferenziali. Il setting principale del film, uno sparuto e anonimo Vuoto, viene colmato solamente dall’enorme mole di apparizioni fini a se stesse, in piena opposizione all’idea di una diegesi ben architettata. E oltre a ciò, dopo Cate Blanchett in Thor: Ragnarok e Christian Bale in Thor: Love and Thunder (giusto per citare un paio di esempi, ma la lista è più lunga), Emma Corrin prosegue la tradizione marveliana di grandi interpreti forzati a ruoli imbarazzanti e mal pensati. Un’occasione mancata, dal momento che Cassandra Nova rientra tra i villain più intriganti e sfaccettati provenienti dai fumetti degli X-Men, mentre qui viene trasformata in una pura macchietta senz’anima. Non che all’MCU sia mai interessata la fedeltà fumettistica, anzi, ma è un peccato che nei loro prodotti non vi sia quasi mai alcuna cura in tal senso.

Generalmente parlando, lo spirito irriverente del personaggio di Deadpool permane, Hugh Jackman si è perfettamente reintegrato nel suo ruolo di Wolverine e le scene action ben riflettono la natura rated R del film. A mancare, però, è una qualsiasi forma di rispetto per quel pubblico che, alle urla da stadio nel riconoscere il cameo X dal film Y, preferisce invece la sobrietà di un buon racconto. Se persino un grande regista come James Mangold, che con il già citato Logan ha realizzato uno dei cinecomic più belli e convincenti di sempre, parla di «morte dello storytelling» in relazione al worldbuilding multiversale, forse sarebbe il caso di iniziare ad ascoltarlo.

Daniele Sacchi