Drive My Car è il nuovo film di Ryûsuke Hamaguchi, vincitore del premio per la migliore sceneggiatura al Festival di Cannes. Dopo lo splendido Il gioco del destino e della fantasia, il regista giapponese ci dona un racconto intimo e profondo sulla vita e sulla morte, soffermandosi in particolar modo sulle storie di chi è ancora qui. «I sopravvissuti continuano a pensare ai morti»: è il dramma di chi rimane, la cornice esistenziale che ci riguarda, noi, qui ed ora. Ispirato all’omonimo racconto di Haruki Murakami contenuto nella raccolta Uomini senza donne, Drive My Car sigla il definitivo successo di Hamaguchi, un autore capace di narrare con una grande intimità le pieghe del vissuto umano.
Protagonista del film è un regista e attore teatrale, Yûsuke Kafuku, interpretato da Hidetoshi Nishijima. L’uomo è solito esercitarsi mentre guida la sua Saab 900 rossa, ricorrendo ai nastri registrati dalla moglie Oto (Reika Kirishima) – che è anche sceneggiatrice dei suoi spettacoli – per ripetere le battute dell’opera di Čechov Zio Vanja. L’apparente equilibrio della vita di Kafuku viene spezzato dalla scoperta del tradimento della moglie con il giovane attore Kōji Takatsuki (Masaki Okada). In realtà, i due avevano già individuato un punto di rottura nella loro relazione in seguito alla morte della figlia, e il tradimento di Oto viene dunque sopportato dall’uomo in silenzio, desideroso di mantenere inalterato il rapporto con la moglie. Tuttavia, la tragica ed improvvisa morte di Oto condurranno Kafuku a nuove – e dolorose – riflessioni e consapevolezze.
Il massiccio prologo di Drive My Car, un’opera molto lunga e densa, dai ritmi contemplativi ed introspettivi, aiuta Hamaguchi a gettare pienamente le basi per quello che si manifesterà poi come il percorso di rinascita esistenziale per il protagonista del film. Il punto di avvio fondamentale di questo processo sarà l’invito a portare in scena Zio Vanja durante il Festival di Hiroshima. A sfidare Kafuku saranno principalmente due aspetti, uno proveniente dall’esterno e uno dall’interno: l’impossibilità di guidare la sua Saab, obbligato su richiesta degli organizzatori del Festival a ricorrere alla giovane autista Misaki (Tōko Miura), e la peculiare scelta individuale di scritturare come protagonista dell’opera non più se stesso, ma Takatsuki, l’amante della moglie scomparsa.
Hamaguchi, come un novello Cassavetes (o Rohmer, a seconda dei punti di vista), ci trascina così in un viaggio delicato e sofferto alla scoperta dei tormenti interiori di Kafuku, riletti nel confronto con il testo teatrale, nelle ritualistiche prove con il nastro recitato dalla moglie (che è presenza fantasmatica e ombra), nelle nuove sfide offerte dal reale. L’interfacciarsi con la sua autista Misaki, ineffabile simulacro di una figlia che non ha mai potuto crescere, finirà per far emergere nell’uomo sentimenti nuovi, contrastanti, tesi verso una rielaborazione del passato lungo le soglie imperscrutabili del presente. In misura eguale, per quanto costitutivamente differente, si snoderà l’incontro-scontro con l’altrettanto tormentato Takatsuki, rivale in amore che non appare mai come realmente tale, in virtù dei segni lasciati da un lutto che ha smorzato ogni possibile antagonismo in favore di un ri-avvicinamento complementare con una figura che non c’è più ma che continua indiscutibilmente a vivere attraverso il suo ricordo, la sua voce registrata, le sue storie e sceneggiature concluse o lasciate (forse) a metà.
Il significato di Drive My Car risiede tutto nel valore della parola e, allo stesso tempo, nella sua assenza. Lo spettacolo di Kafuku, in tal senso, si presenta come simbolicamente rappresentativo, in quanto rilettura multiculturale del dramma di Čechov che vede attori di diverse provenienze recitare ciascuno nel proprio idioma. Il ruolo di Sonja, in particolare, spetta ad un’attrice coreana muta (Park Yoo-rim) che si esibisce comunicando con la lingua dei segni, attribuendo alla corporeità e al silenzio un’intensità drammatica che viene a sua volta ripresa nel progressivo sviluppo del rapporto tra Kafuku e Misaki, portandoci ad un climax conclusivo dalla fragilità tumultuosa, irripetibile e sorprendente in grado di concentrare tutta la sua carica espressiva nella semplicità di un gesto.
Daniele Sacchi