“Dunkirk” di Christopher Nolan – Recensione

Dunkirk

1940. In piena seconda guerra mondiale, le truppe britanniche, francesi e belga si trovano isolate sulle spiagge di Dunkerque, circondate dall’esercito nazista. L’unica via di salvezza è il mare, ma il processo di evacuazione dei soldati è molto difficoltoso: il caos regna sotto l’intenso fuoco nemico, e per portare a termine l’ardua impresa (battezzata come Operazione Dynamo dai britannici) si renderà necessario utilizzare anche numerose imbarcazioni mercantili civili. Christopher Nolan esce pertanto dalla sua comfort zone con Dunkirk (2017), realizzando per la prima volta nella sua carriera un’opera tratta da una storia realmente accaduta (seppur con personaggi di finzione). Il risultato è un film di guerra atipico che, pur aspirando ad un alto grado di realismo rappresentativo, non manca di osare sul piano narrativo, riprendendo alcuni degli stilemi tipici del regista inglese e adattandoli ad un nuovo contesto. Lasciate da parte le architetture escheriane di produzioni come Inception (2010) e Interstellar (2014), Nolan ripresenta in Dunkirk la sua ossessione per il tempo assegnandole una veste originale.

Il film infatti è strutturato essenzialmente su tre linee narrative ambientate in tempi e luoghi differenti l’una con l’altra, linee che, mescolate tra di loro in fase di montaggio, alimentano il senso di pathos nello spettatore e contribuiscono ulteriormente ad amplificare il tumulto della fuga dei soldati arenati sulle spiagge francesi. Il focus di ognuna di queste linee è su diversi gruppi di personaggi, in modo da permettere allo spettatore di riuscire ad orientarsi nell’insieme volutamente disordinato della trama del film attraverso le singolari esperienze dei suoi protagonisti. La prima linea racconta proprio di un gruppo di soldati in cerca di una via di fuga da Dunkerque, mentre gli altri due percorsi narrativi del film si occupano di raccontare i soccorsi da parte dei britannici: se da un lato possiamo osservare l’intervento delle forze aeree, trainate in particolare dal personaggio di Farrier (interpretato da Tom Hardy), dall’altro lato possiamo invece seguire il tentativo da parte delle imbarcazioni civili di raggiungere la Francia.

Dunkirk

La disconnessione temporale di Dunkirk tuttavia non è l’unica specificità che allontana il film da altre pellicole dello stesso genere. L’opera di Nolan è soprattutto una celebrazione del cinema in quanto medium fortemente espressivo: la quasi assenza di dialoghi, l’incessante soffermarsi sul silenzio dei personaggi, la martellante e onnipresente colonna sonora di Hans Zimmer (in gran parte contrassegnata dal ricorso al principio della scala Shepard), l’estrema cura dedita al sound mixing e al sound editing, l’utilizzo di navi e aerei d’epoca, la scelta di rendere i soldati tedeschi un nemico sostanzialmente invisibile seppur irrimediabilmente presente, sono tutti elementi che glorificano l’esperienza cinematografica in quanto tale. Ad amplificare tutto ciò vi è inoltre il ricorso alla tecnologia IMAX che attraverso il suo impatto garantisce ulteriormente allo spettatore di potersi immergere totalmente con il film, espandendone i confini visivi e amplificandone la portata.

Al di là degli aspetti stilistici, Dunkirk è in ogni caso il racconto di una sconfitta clamorosa per gli Alleati. Nolan decide tuttavia di epurare la sua opera da considerazioni strettamente politiche per renderla invece una pura celebrazione di coloro che su quelle spiagge hanno dato la vita o hanno rischiato di perderla per il loro Paese. Dunkirk pertanto si presenta sì come un film sul passato, ma allo stesso tempo, e paradossalmente, non sembra voler riflettere su di esso. Il messaggio veicolato da Nolan sembra invece vertere su un altro tema e sembra in realtà essere in linea proprio con lo stile adottato per l’opera, ossia nella riduzione di tutto all’essenziale. A tal proposito, nel parlare del suo film, il regista inglese lo ha definito come una storia di sopravvivenza: cosa rimane dell’Operazione Dynamo infatti, se non il ricordo di chi è sopravvissuto a quel singolare e tragico evento? O più semplicemente, cosa ci rimane del “miracolo di Dunkerque” se non l’idea stessa di sopravvivenza?

Con Dunkirk insomma, Christopher Nolan è riuscito a proporre in una singola istanza un insieme di peculiarità proprie della sua poetica ed estetica cinematografica, dalla decostruzione temporale dell’intreccio narrativo sino all’idea di un cinema che abbia una propria ricercatezza formale ma che possa allo stesso tempo darsi come un blockbuster fruibile da tutti, coniugandole con il suo desiderio personale di mettere in scena una storia che aveva in cantiere da prima ancora di esordire dietro la macchina da presa. Ma soprattutto, con l’enorme esperienza cinematografica che ha realizzato, ci ha ricordato quanto la settima arte sia ancora giovane e quanto in futuro possa ancora darci.

Daniele Sacchi