Eastern Plays (2009) è un film atipico all’interno del panorama cinematografico bulgaro, un ritratto quasi neorealista e in un certo senso poetico sulla contemporaneità, sulle persone ai margini della società, sulla perdita di contatto con l’altro. L’opera prima di Kamen Kalev si apre come un racconto duale che si focalizza inizialmente su due fratelli, Itso (Christo Christov) e Georgi (Ovanes Torosian), per poi soffermarsi maggiormente sul primo, esplorandone il nomadismo esistenziale e riempiendo l’immagine cinematografica della vacuità della sua essenza. Alienazione urbana, collasso di ogni punto di riferimento efficace, rottura con le forme tradizionali di relazione intersoggettiva con l’alterità: Kalev sorprende con un’operazione sulla carta complessa ma che, grazie anche ad alcune scelte espressive coraggiose, riesce a smuovere nel profondo l’animo.
Sia Georgi sia Itso sono due persone che, in modi diversi, hanno smarrito la propria strada. Il primo si è unito a una gang neo-nazista, mentre il secondo ha sviluppato una dipendenza per il metadone. Kalev ci mostra inizialmente la condizione di disagio individuale dei due per poi focalizzarsi maggiormente – alterando significativamente la struttura del film – su Itso, dopo che un evento centrale nell’economia dello sviluppo della trama di Eastern Plays ci mostra il gruppo di Georgi picchiare selvaggiamente una famiglia di turisti turchi. L’evento condurrà progressivamente Itso, coinvolto casualmente nell’attacco, a ripensare completamente alla sua vita e al modo in cui interagisce con le altre persone. Il punto centrale del discorso di Kamen Kalev sembra chiaro: anche nei momenti più difficili della nostra vita, e nonostante tutte le difficoltà, un semplice cambio di diposizione e di attitudine mentale può risultare fondamentale.
Una particolarità importante di Eastern Plays è la provenienza degli attori da situazioni sociali complesse. L’attore che interpreta Itso ad esempio – al debutto sul grande schermo e purtroppo scomparso durante le riprese a causa di un’overdose – inserisce tutto se stesso nel suo personaggio, azzerando ogni confine tra l’immaginario e il vissuto reale. Le opere artistiche presenti nel suo appartamento, la stessa abitazione, così come il negozio di intagli in legno in cui lavora sono tutte parti reali della sua vita, affiancate alla rappresentazione del suo profondo disagio personale. Ed è proprio in questi termini che rappresentazione e realtà diventano un tutt’uno: non tanto nelle vicende mostrate, le quali mantengono in ogni caso un grado di finzione preponderante in termini di narrativa, quanto nel carattere espressivo di ciò che Kalev intende trasmettere con il suo film.
Se da un lato Kalev tematizza solo timidamente la volontà di rimanere ancorati alle trame positive del reale (la fuga di Georgi ne è un esempio), dall’altro il regista bulgaro si sofferma fortunatamente in maniera preponderante sulla necessità di riavvicinarsi l’un con l’altro. L’atteggiamento di Itso nei confronti della sua vita muta sensibilmente nel corso del film: un cambiamento lento, difficoltoso, non radicale, ma che ha come sua base la credenza che ci sia qualcosa in più – pensiamo in tal senso al ruolo svolto nel film da Işıl (interpretata da Saadet Işıl Aksoy) – oltre ai confini entro i quali siamo soliti rinchiuderci in solitario. Eastern Plays non è un “semplice” racconto del degrado periferico di Sofia e delle condizioni dei suoi abitanti, ma, in fondo, è anche un’opera che vuole proporsi a modo suo come un omaggio concreto alla vita, un tentativo di recupero di quei valori positivi che qualificano, in profondità, la nostra umanità.
Daniele Sacchi