«I film sono più armoniosi della vita, Alphonse. Non ci sono intoppi nei film, non ci sono rallentamenti. I film vanno avanti come i treni, capisci, come i treni nella notte. La gente come te, come me, lo sai bene, siamo fatti per essere felici nel nostro lavoro del cinema». Le parole pronunciate in Effetto notte (1973) da Ferrand sembrano veicolare il pensiero specifico di François Truffaut sul senso del cinema, sensazione alimentata ulteriormente dal fatto che è proprio Truffaut a vestire i panni del personaggio. Effetto notte è, di fatto, una delle opere più brillanti del regista francese, grazie in particolar modo alla sua capacità di riuscire ad imbastire un profondo discorso sul significato complessivo del fare cinema attraverso l’atto stesso di fare cinema, ponendosi sul piano del metacinematografico senza ricorrere ad astrazioni o ad eccessive derivazioni concettuali ma rimanendo saldamente – e quasi per ossimoro, se pensiamo all’intento dell’operazione – ancorato al concreto.
In Effetto notte, Truffaut esibisce in tal senso una certa fedeltà e un preciso gusto estetico verso la narrazione e verso ciò che il cinema può restituire allo spettatore attraverso le sue storie e le sue immagini. Il punto di partenza della trama risiede proprio nelle riprese di un film, Je vous présente Paméla, definendo sin dall’idea narrativa il centro focale del discorso proposto dall’autore francese. La pellicola è diretta dal già citato Ferrand, un regista che si trova, oltre a dover gestire un cast variegato (nel quale figurano personaggi interpretati, tra gli altri, da Jean-Pierre Aumont, Jacqueline Bisset, Valentina Cortese e Jean-Pierre Léaud), a dover far fronte ai numerosi impegni correlati al suo ruolo, insieme alle relative complicate decisioni da prendere sugli aspetti più strettamente produttivi del film. Parallelamente, Effetto notte si sofferma anche sulle relazioni off camera tra gli attori e i membri della crew, mostrandone il lato più esplicitamente umano con un tono che si pone a cavallo tra il verosimile e il caricaturale.
A tal proposito, non è un caso che, in una lettera indirizzata a Truffaut, Jean-Luc Godard abbia definito Effetto notte come la messa in scena di una bugia borghese. Truffaut non propone una mera mise en abyme limitata al concetto del “film dentro al film”, ma allarga l’orizzonte metacinematografico del proprio lavoro anche a ciò che a prima vista potrebbe apparire come la parte più didascalica di Effetto notte, ossia quell’aspetto più umano e intersoggettivo che sembrerebbe fungere come “contorno” alle riprese di Je vous présente Paméla. I rapporti extrafilmici tra i protagonisti del film diventano in realtà un’ulteriore operazione di elaborazione della loro esperienza nella forma del testo cinematografico, in quello che, volendo, si presenta come un “film accanto al film dentro al film”. Le vite dei personaggi di Effetto notte non sono, in fondo, tanto dissimili dalle vicende raccontate nel melodramma che sono in procinto di realizzare, tra storie d’amore, disillusioni e mezze verità.
François Truffaut realizza così un film che è sì una bugia, ma una bugia paradossalmente veritiera. Le parole di Ferrand qui riportate, con la consapevolezza di ciò che Effetto notte mira a rappresentare, sembrano ora risuonare diversamente. «I film sono più armoniosi della vita», ma la vita di Alphonse, al di là del suo essere effettivamente un personaggio fittizio, contiene a modo suo il suo essere parte di un ineliminabile substrato filmico. Come l’effetto notte che dà il titolo all’opera, una tecnica che permette di rendere notturna una scena girata in piena luce (la nuit américaine in francese), il film di Truffaut esibisce pienamente la natura artificiale del cinema, così come le inevitabili sottotrame che finiscono per comporne e a volte persino a modificarne il processo realizzativo. Il cinema imita il reale dandosi come un suo corrispettivo speculare, non sovrapponibile ma irrimediabilmente continuo e affine.
Daniele Sacchi