El Topo (1970) si apre con una richiesta. «Oggi compi sette anni, sei un uomo ormai. Sotterra il tuo primo giocattolo e il ritratto di tua madre». Il protagonista del film intima al figlio di lasciarsi alle spalle il passato e di guardare la realtà attraverso occhi nuovi, avviando un percorso di vita teso verso ciò che gli si pone di fronte e non verso ciò che si trova ormai dietro alle sue spalle. Similmente, l’uomo – il pistolero El Topo (“la talpa”), interpretato dal regista Alejandro Jodorowsky – cercherà di compiere la medesima operazione nel corso della pellicola, tra insidie e tormenti, oggetti del desiderio, discese nel baratro e risalite. È lo stesso El Topo, infatti, a lasciarsi alle spalle qualcosa, il figlio al quale vorrebbe insegnare come essere un uomo, un’azione che sin dai momenti iniziali dell’opera ci permette di comprendere come il surreale film di Jodorowsky tratteggi dinanzi a sé una direzione precisa e ben ponderata.
A differenza dell’allucinatorio Il paese incantato (1968), il regista franco-cileno propone infatti nel suo secondo lungometraggio un percorso narrativo maggiormente definito, addentrandosi inizialmente sui binari del genere western. Tuttavia, diventa presto evidente come la scelta del genere sia solo una scusa per Jodorowsky per sviluppare attorno ad esso la propria poetica visiva allegorica e grottesca. La prima parte di El Topo ci presenta una figura centrale, il protagonista, spogliato della sua componente eroica: l’uomo abbandona il figlio per conquistare l’amore di una donna, Mara, la quale desidera l’uccisione di quattro temibili pistoleri. Per portare a termine la sua missione e conquistare l’oggetto del suo desiderio, El Topo parte alla ricerca dei suoi avversari nel deserto, eliminandoli ad uno ad uno in una serie di sequenze che mescolano, senza alcuna soluzione di continuità, brutale violenza, ironia metafisica ed eros in uno stream of consciousness lisergico e privo di coordinate o riferimenti chiaramente identificabili.
La prima parte di El Topo è un “caos ordinato”, dunque, ma allo stesso tempo è anche – come anticipato – il percorso inverso rispetto a quanto intimato dal pistolero al figlio. El Topo cessa progressivamente di essere uomo e, nella seconda parte del film, non potrà che cercare di risollevarsi diventando realmente “la talpa” che gli dà il nome, risalendo dalla sotterranea “città dei mostri” per purificare la depravazione terrena e, parallelamente, liberare se stesso. È così che Alejandro Jodorowsky abbandona gli stilemi del western – mai abbracciati fino in fondo – per proporre quella che sembra piuttosto una sorta di rivisitazione dell’esperienza cristologica, tesa tra simbolismo cristiano e sottotesti contemplativi di matrice esoterica e anche orientale, con tanto di un inverso Ritorno del figliol prodigo nei momenti conclusivi che se da un lato chiude un ciclo, dall’altro ne apre forse un altro.
Apprezzatissimo da John Lennon, El Topo ha fondamentalmente permesso ad Alejandro Jodorowsky di ritagliarsi uno spazio all’interno della storia della settima arte in qualità di grande autore visionario, atipico ed innovativo. Il successivo La montagna sacra (1973) è stato infatti un successo grazie anche all’interesse di Lennon e al conseguente coinvolgimento come produttore del manager dei Beatles Allen Klein, permettendo così al film di essere presentato in diversi festival internazionali come ad esempio Cannes. A differenza però di un altro gigante di un certo cinema criptico, onirico e imperturbabile come David Lynch, la proposta filmografica di Jodorowsky si muove di pari passo con un insieme di orizzonti spirituali e mistici che il regista ha nel tempo sistematizzato in un corpus di numerosi scritti e trattati filosofici, chiedendo dunque allo spettatore di munirsi di arcane chiavi d’accesso per potersi affacciare al meglio alla sua opera, rendendone di fatto ancora più complessa la fruizione. Un ostacolo che, però, possiamo comunque cercare di sormontare attraverso il puro godimento estetico dell’eccezionale prova autoriale di Jodorowsky, per quanto ermetica e, spesso, ineffabile.
Daniele Sacchi