Le dinamiche del controllo e del potere maschile sono poste sotto lente d’ingrandimento in Fair Play, thriller finanziario ed erotico diretto da Chloe Domont e distribuito da Netflix. Al centro della trama del film troviamo Emily (Phoebe Dynevor) e Luke (Alden Ehrenreich), due analysts di un fondo speculativo intenzionati a fare carriera nello spietato mondo finanziario newyorkese. Nonostante la policy aziendale vieti espressamente le relazioni amorose tra i propri dipendenti, Emily e Luke si frequentano in segreto e pianificano di sposarsi. Il loro rapporto, tuttavia, verrà messo a dura prova dalla scelta del CEO dell’azienda (Eddie Marsan) di promuovere Emily come portfolio manager al posto di Luke.
Il film di Chloe Domont opera attraverso continui ribaltamenti prospettici. La natura stessa della relazione tra i due protagonisti è incerta sin dalle prime battute del film, quando appare subito come evidente che la possibilità di fare carriera all’interno di un contesto fortemente competitivo (specialmente per una donna) come l’ecosistema finanziario statunitense sia un elemento foriero di squilibri. In tal senso, Fair Play alterna costantemente tra l’esame delle dinamiche di coppia e l’analisi del loro corrispettivo speculare nell’ambiente lavorativo, così da esplorarne le tensioni e i cortocircuiti fondativi.
Il risultato di quest’indagine è un approfondimento lucido sui meccanismi intrinseci della prevaricazione, uno sguardo cerebrale sull’ambizione tossica e sulla fiducia malriposta nell’alterità. Da questo punto di vista, Fair Play è un film sul processo stesso della scoperta di se stessi attraverso l’Altro, un percorso in grado di mettere a fuoco tutti i limiti umani che finiscono inevitabilmente per emergere quando a monte di tutto vi è un mondo alla deriva, ancora permeato dalle strutture patriarcali e maschiliste.
Allo stesso tempo, il film di Chloe Domont non commette l’errore di cadere nella trappola femminista più demonizzante e radicale, instaurando un discorso sul potere a tutto tondo che finisce per intrappolare nella sua ragnatela la stessa Emily, costretta a dover scendere a patti con una realtà opprimente e disumanizzante. Muovendosi tra momenti di crisi e tra numerosi punti di rottura, nella consapevolezza di non poter – o almeno questa è la percezione – mai tornare indietro, Fair Play raggiunge infine il suo climax, un affresco oscuro e disturbante sull’essere umano in grado di incapsulare al meglio le conseguenze estreme scaturite dall’ossessione lavorativa e dalla pretesa di controllo sull’Altro.
Nonostante le ottime premesse, tuttavia, Fair Play non porta mai ad effettivo compimento le sue pretese di artisticità, ponendosi in una sorta di limbo tra un film autoriale e un’opera più marcatamente di genere, non pendendo mai né da una parte né dall’altra. La sfera erotica accennata nelle prime sequenze, in particolare, viene presto abbandonata per un racconto che si muove su binari ormai ben collaudati, faticando ad andare al di là del suo dualismo fondativo e a penetrare nell’universale, limitando la portata del suo discorso alla singolarità del suo racconto. In ogni caso, la preponderante enfasi sulla mascolinità tossica e su come questa finisca per affliggere in un modo o nell’altro sia gli uomini sia le donne riesce comunque a cogliere nel segno.
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Daniele Sacchi