Fremont, la recensione del film

Fremont

È uscito il 27 giugno nelle sale italiane Fremont, quarto lungometraggio del regista iraniano-britannico Babak Jalali, co-sceneggiato con Carolina Cavalli, regista di Amanda (2022) di cui Jalali si occupò del montaggio. Vincitore agli Independent Spirit Awards del John Cassavetes Award – il premio al miglior film realizzato con un budget inferiore al milione di dollari – il film racconta la storia di Donya, ex traduttrice afghana al servizio del governo statunitense che trova rifugio a Fremont (da cui il titolo), città situata nella Bay Area di San Francisco e da molti anche chiamata “Little Kabul” in quanto ospita una delle più grandi comunità afghane degli Stati Uniti.

Grazie al suo lavoro da traduttrice per l’esercito americano, Donya ha avuto infatti la possibilità di scappare da Kabul e ricominciare una nuova vita in California. Qui però si sente inquieta, soffre d’insonnia e le sessioni di psicoterapia a cui si sottopone appaiono sempre più come una via di fuga da un luogo, Fremont, vissuto non più come terra di sogni futuri, bensì come segno tangibile dei propri traumi. «Senti di aver tradito il tuo paese?» le chiede il terapeuta, durante una sessione. «No» risponde Donya. Eppure il senso di colpa per aver abbandonato la propria nazione per trovare rifugio nel territorio nemico si fa sempre più ingombrante. L’insonnia si fa quindi motore scatenante della narrazione e rivela il peso che ha il passato sulla coscienza della protagonista.

Anaita Wali Zada, ex giornalista e rifugiata che nel film interpreta Donya, al suo debutto appare come una vera e propria rivelazione. Pur non avendo mai seguito corsi di recitazione, con incredibile padronanza lavora sul suo personaggio in sottrazione, regalandoci un’interpretazione sincera e riuscitissima. Anche nella costruzione dell’immagine Jalali sfrutta il formato 1:33 e l’utilizzo del bianco e nero per evocare un senso di chiusura e oppressione intorno alla protagonista, mentre le atmosfere intimistiche richiamano il cinema di Jim Jarmusch. Non è un caso che Fremont si sviluppi nella prima parte per immagini fisse, statiche, limitanti e che i movimenti di macchina arrivino solo quando Donya sceglie di seguire attivamente il proprio desiderio di rivalsa e autodeterminazione.

Quando nella fabbrica di biscotti della fortuna in cui lavora viene incaricata di scrivere i messaggi all’interno dei biscotti, Donya ne approfitta per lanciare all’universo il suo messaggio: “desperate for a dream” con il suo nome e numero. Donya prende la macchina e si mette in viaggio per andarsi a prendere quello spazio di libertà, possibilità e soprattutto amore che si merita, fuori dai confini mentali e fisici di Fremont. Una brevissima – ma memorabilissima – apparizione di Jeremy Allen White (The Bear) nei panni del meccanico Daniel rende l’epilogo del film ancora più speciale. I dialoghi tra i due, fatti di poche parole, spostano lo sguardo di Donya verso un futuro possibile. Un segnale di speranza e buon auspicio… come quello di un biscotto della fortuna.

Martina Dell’Utri