Il documentario di Sergio Basso, Giallo a Milano, tratta un periodo recente della storia della comunità cinese e in particolare parte da un evento di cronaca risalente all’aprile 2007. Durante un diverbio con una donna cinese, che aveva commesso un’infrazione, alcuni vigili urbani ricorrono a toni e modi bruschi. Molti passanti, esercenti e abitanti cinesi del quartiere escono dai loro negozi e dalle loro abitazioni per difendere la donna. L’evento si trasforma in una vera e propria rivolta di strada in cui i vigili rischiano il linciaggio e vengono soccorsi da numerose pattuglie della polizia. Questo episodio non è che il culmine di un malcontento diffuso da parte della comunità cinese nei confronti delle autorità milanesi che da tempo imponevano restrizioni per disincentivare il commercio all’ingrosso che coinvolgeva la centrale zona di via Paolo Sarpi.
Il regista decide dunque di indagare le ragioni e trovare le radici dell’astio tra i milanesi e i cinesi (di cui questo episodio è soltanto la manifestazione più recente), nel tentativo di disacerbarlo. L’intenzione dell’autore è quella di dare ai cinesi che vivono a Milano diritto di replica, iniziando così una nuova narrazione, nella speranza che l’opera sia un’adeguata cassa di risonanza. Il giallo della comunità cinese e dei suoi misteri si disvela così attraverso la voce e le esperienze dei cinesi stessi, giovani o anziani, appena arrivati o residenti a Milano da molto tempo. Tale diversità dimostra come anche all’interno di una medesima comunità i punti di vista e le prospettive – sia sulla comunità stessa che sul contesto in cui questa agisce – siano molteplici.
Le prime sequenze di Giallo a Milano sono emblematiche del tipo di rappresentazione della comunità cinese che quest’opera veicola e di quanto questa differisca dal documentario Chinamen di Rocchi e Demonte, di cui si è parlato qui. Il film si apre infatti su un incontro di pugilato tra un italiano e un cinese. I due atleti, presentati dal commentatore sportivo, si trovano agli angoli opposti del ring e il loro avvicinamento avviene solo per sferrare un attacco. In questo simbolico scontro tra Italia e Cina chi viene sconfitto è proprio la Cina, il cui pugile va al tappeto. Il rapporto tra Milano e la sua comunità cinese, che si muove all’interno della zona denominata Chinatown (come mostrato dalle immagini delle prime sequenze in cui si vedono la via e i suoi passanti), si configura da subito come conflittuale. A chiosare questo scontro c’è il commento di una voce fuori campo, identificabile subito come quella di una donna milanese di mezza età, che esprime pregiudizi ingiustificati ma ben radicati nei confronti dei cinesi.
Ciò che può accomunare Giallo a Milano al documentario di Rocchi e Demonte è il breve excursus sulle origini di Chinatown. Il regista non tralascia infatti l’aspetto storico dell’area descritta e narra le vicende del quartiere di Porta Volta attraverso un testimone diretto: Angelo Ou. Angelo è definito come la memoria storica del quartiere e racconta di come il padre occasionalmente ospitasse i lavoratori e i venditori ambulanti nel suo laboratorio e di come questi dormissero al suo interno. Al racconto di questo gesto, descritto come atto di solidarietà, si affiancano tuttavia le immagini più recenti di una retata delle forze dell’ordine all’interno di un dormitorio abusivo in cui molte persone dormono in spazi angusti. I lavoratori cinesi vengono scortati fuori dall’edificio. Il regista sceglie di accompagnare anche il ricordo nostalgico di Angelo da una nota amara.
Le riprese si soffermano principalmente su due aspetti: le persone, i volti e le espressioni che assumono durante le loro interazioni, e i luoghi della città in cui si svolge l’azione. Via Paolo Sarpi è rappresentata più volte, così come i laboratori in cui lavora la manodopera cinese. Sono ripresi anche luoghi che fanno parte della vita di ogni milanese, il cimitero e l’ospedale, insieme a precisi luoghi come la scuola, il teatro, la rotonda della Besana, l’Accademia di Belle Arti di Brera, in cui la cultura cinese trova espressione attraverso rappresentazioni, mostre, lezioni. Ciò che Basso vede non è una condivisione della città, bensì un confinare la comunità cinese a quegli spazi della città inutilizzati o portarla a crearsene di nuovi.
Dall’osservazione di Chinamen e Giallo a Milano risulta evidente la diversità di impostazione del testo filmico e la scelta del posizionamento del focus narrativo. Questa distanza deriva, in primo luogo, dall’identità e dalla formazione dei registi. Demonte si dichiara infatti molto legato alla storia dei Chinamen da lui descritti, poiché è intimamente intrecciata con la storia della sua famiglia. Rocchi e Demonte si concentrano quindi sull’aspetto storico soffermandosi sugli esempi di eccellenza. È una storia costellata da frequenti interazioni di successo, soprattutto a livello personale: le amicizie, le collaborazioni lavorative, i matrimoni. Le difficoltà affrontate, non assenti in Chinamen, sono dovute a contingenze storiche di cui i cinesi sono vittime (i campi di concentramento calabresi e abruzzesi) e non derivano da una chiusura o da un’auto-ghettizzazione.
Basso è un sinologo. Sono stati i suoi studi e non la sua storia familiare ad avvicinarlo alla lingua e alla cultura cinese e a portarlo a trasferirsi a Pechino per due anni. Il suo approccio è quindi diverso da quello di Demonte così come ne differiscono i percorsi. Infatti, anche Basso lascia la parola alla comunità cinese, ma compie un ulteriore passo indietro, permettendo agli italiani di esprimere i loro pregiudizi e prendendo queste esternazioni discriminatorie come punto di partenza. Il linguaggio utilizzato da Basso è differente: ricorre a tecniche – inquadrature, illuminazione, dialoghi – riconducibili al cinema di finzione e l’animazione è utilizzata limitatamente a due sequenze, non riguarda il film nella sua interezza, come nel caso di Chinamen.
A differenza di Demonte e Rocchi, Basso parla di una mancata integrazione ma non ne attribuisce la colpa alla comunità cinese o a una sua precisa volontà di autoesclusione dalla vita della città, come invece accade secondo l’immaginario collettivo. I registi di Chinamen e Giallo a Milano concordano infatti su un punto. Entrambi i film sfatano la convinzione secondo cui la comunità cinese si sia auto-ghettizzata e isolata in un’area della città, via Paolo Sarpi, divenuta una vera e propria isola all’interno del contesto urbano.
Chiara Passoni