Jafar Panahi torna al cinema come autore-attore ne Gli orsi non esistono (No Bears), il suo decimo lungometraggio presentato in concorso alla 79esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia e vincitore del premio speciale della giuria. Lo scorso luglio Panahi è stato arrestato dal regime iraniano e condannato a sei anni di carcere. Il suo arresto ha fatto molto discutere in tutto il mondo, così come le notizie delle attuali proteste (e conseguenti violente repressioni) delle studentesse iraniane che scendono in piazza a manifestare per i propri diritti.
Gli orsi non esistono si apre con un piano sequenza: una coppia iraniana si sta organizzando per emigrare in Francia e dire addio dopo dieci lunghi anni (e innumerevoli tentativi falliti di oltrepassare il confine) al regime oppressivo di Teheran. Poco dopo arriva il «Cut!» dell’assistente alla regia e ci ritroviamo su un set cinematografico. Un uomo, con il suo computer portatile, sta cercando di dirigere la scena da remoto. È Jafar Panahi, il regista nel ruolo di se stesso in esilio in un piccolo villaggio rurale al confine tra Iran e Turchia. Si trova in una stanza, come se da lì non potesse uscire, mentre i problemi di connessione internet rendono ancora più difficili le comunicazioni con la troupe, che intanto sta girando in Turchia.
In questo incipit c’è già tutto il senso meta-cinematografico della narrazione filmica de Gli orsi non esistono. Va infatti ricordato che già nel 2010 Panahi aveva ricevuto il divieto di esprimere pubblicamente le proprie idee, quindi anche di girare film e lasciare l’Iran per vent’anni con l’accusa di «propaganda contro il regime». Così il regista ha escogitato espedienti sempre nuovi per girare i propri lungometraggi, come per This is Not a Film nel 2011 e Taxi Teheran del 2015 (dove si è finto un tassista), aggiudicandosi per quest’ultimo l’Orso d’oro al Festival di Berlino.
Ne Gli orsi non esistono, i piani si sovrappongono in una riflessione continua tra cinema e realtà, con Panahi che si fa tramite e testimone – dietro e davanti la macchina da presa – dell’Iran contemporaneo. Realtà e finzione si mescolano e si scontrano violentemente quando una fotografia scattata casualmente da Panahi a due giovani mette a repentaglio l’equilibrio della piccola comunità arcaica che lo ospita. La ragazza ritratta è promessa in sposa a un altro e la foto potrebbe essere la prova di un possibile adulterio. Panahi apre qui un’altra riflessione, o meglio una denuncia, sul senso precario delle immagini che oscilla tra testimonianza del reale e frutto di manipolazioni. Del resto, la paura è un sentimento che ci porta ad agire oltre i confini della razionalità e per questo strumentalizzata. Anche il titolo ne è la prova, No Bears, non ci sono orsi qui: le paure e le superstizioni del villaggio diventano metafora del controllo del regime.
Il villaggio si trova sul confine, luogo che porta con sé anche l’idea della fuga. Mentre il mistero della fotografia si infittisce, l’assistente alla regia raggiunge Panahi per convincerlo a oltrepassare la frontiera e raggiungere il luogo delle riprese in Turchia. Tutto è ben organizzato, ma il regista ci ripensa, non vuole scappare dal suo paese. Gli orsi non esistono lancia un chiaro messaggio politico: l’importante è continuare a filmare, a lottare. Lo dimostra simbolicamente anche la scena finale del film. Quando sembra non esserci più posto per la speranza, qual è allora il ruolo del Cinema? Raccontare, mostrare anche e soprattutto la violenza e la morte per aprirci e liberarci dai nostri confini mentali.
Panahi sta per lasciare il villaggio e la morte è lì, presente e ingombrante. La libertà ancora una volta è venuta meno, questa volta per un amore sbagliato. Nell’ultima inquadratura il regista continua a guidare, ma si ferma poco dopo e tira il freno a mano. La macchina rimane con il motore acceso. Fermarsi – come sul confine – restare, continuare a testimoniare e filmare diventa un atto di resistenza. Nonostante tutto. Anche quando fuggire sembrerebbe l’unica via possibile.
Martina Dell’Utri