Una scatola con sette fotografie, sette istanti cristallizzati per sempre nel tempo che, nel loro piccolo, tracciano le tappe di un racconto più ampio. È il punto di partenza di Godland – Nella terra di Dio, terzo lungometraggio realizzato dal regista e sceneggiatore islandese Hlynur Pálmason dopo Vinterbrødre e A White, White Day – Segreti nella nebbia. La scatola ritrovata in Islanda – artificio narrativo inventato ma verosimile – è testimonianza del viaggio di un pastore danese, Lucas (interpretato da Elliott Crosset Hove), peregrino “armato” solamente della sua macchina fotografica.
Lucas raggiunge l’Islanda sul finire del diciannovesimo secolo – quando l’isola faceva ancora parte del Regno di Danimarca – con l’obiettivo di fondare una chiesa, accompagnato da una guida, Ragnar (Ingvar Eggert Sigurðsson), da un interprete e da alcuni lavoratori locali. Le resistenze di Ragnar, avverso nei confronti dei danesi, e la morte accidentale dell’interprete di Lucas non potranno che trascinare progressivamente l’uomo nello sconforto più totale. L’entrare a contatto con un territorio splendido ma ostile, dove la natura desidera ardentemente essere lasciata in pace dall’uomo (come le sue conformazioni geologiche sembrano quasi suggerire attraverso le sottolineature registiche di Pálmason), non potrà che suscitare in Lucas un profondo senso di smarrimento.
Non si tratta di un’alienazione scaturita solamente dalla lontananza dalla patria, una peculiarità sicuramente presente nonostante i confini geopolitici uniscano formalmente l’Islanda alla Danimarca nel film, ma di una sensazione più viscerale, legata ad un senso di impotenza che agisce su più livelli, alla ricerca – forse vana? – di una possibile liberazione sia per il corpo sia per lo spirito. Godland è un film che gioca molto su queste sensazioni primordiali attraverso una messa in scena a tratti evocativa, a tratti invece più misurata, muovendosi continuamente tra dubbi religiosi e questioni identitarie, tra ricerche amorose e dilemmi esistenziali, tra fotografie che uniscono e conflitti umani che dividono.
Nonostante tutti questi movimenti, Godland appare nel suo complesso, però, come un monolite eccessivamente rigido. La causa è da rilevare in particolar modo nel ritmo troppo poco sostenuto attraverso il quale si sviluppano le vicende del film. Hlynur Pálmason preferisce sempre la pura contemplazione rispetto all’azione drammatica, sebbene si percepisca in diversi punti, specialmente nella seconda metà del film, la mancanza di un vero e proprio urto che buchi lo schermo. Si tratta ovviamente di una scelta ponderata che tuttavia impedisce all’opera di Pálmason di graffiare realmente lo spettatore in profondità.
A bilanciare questa scelta, vi è al contrario una cura eccezionale per la resa estetica complessiva dell’immagine cinematografica – come riscontrabile ad esempio nella suggestiva sequenza dedicata al cavallo di Lucas – che testimonia uno sguardo registico oculato e pienamente consapevole della materia trattata (complice anche l’egregio lavoro svolto dalla direttrice della fotografia Maria von Hausswolff). Sprazzi di grande cinema, dunque, disseminati all’interno di un bellissimo mosaico, un mosaico ancora troppo “perfetto” e ordinato per poter ambire ad un reale sconvolgimento, ma le basi per il futuro sono state poste.
Daniele Sacchi