Hagazussa (2017), “strega” nell’alto-tedesco antico, racconta una storia di isolamento, segregazione, ripudio. Il film si concentra nello specifico su Albrun (Celina Peter), una bambina che vive in una capanna isolata insieme alla madre (Claudia Martini) nelle Alpi del 15esimo secolo. Entrambe si dedicano all’allevamento di capre da latte, cercando di contribuire al benessere del villaggio vicino, ma l’atteggiamento della comunità nei loro confronti è freddo e distaccato. Superstizioni e credenze popolari si sono diffuse tra la gente, causando l’emergere di un sentimento condiviso sul fatto che le due possano essere delle streghe.
A causa di una malattia, la madre di Albrun viene presto a mancare e il film, con un salto temporale di 15 anni, si sofferma in seguito sulla vita della ragazza stessa (interpretata ora da Aleksandra Cwen). L’opera di debutto di Lukas Feigelfeld, sebbene per lo stile e per la tematica affrontata risulti molto simile a The Witch (2015) di Robert Eggers, in realtà se ne discosta ampiamente nelle finalità. Hagazussa è sì un film di streghe, ma è anche e soprattutto una vera e propria disamina sulle meccaniche strutturali che governano un fenomeno importante e innervato nelle società umane come quello del capro espiatorio. Albrun, di fatto, non è nient’altro che una vittima di un insieme di dinamiche che non può controllare, pensata e rappresentata dalla comunità come un elemento di disturbo che deve essere necessariamente messo in disparte, se non direttamente eliminato. Il parallelo emergere di fenomeni di psicosi in Albrun stessa è altrettanto sintomatico degli effetti di non condizione sociale non derivante da una sua scelta specifica, ma frutto di un’imposizione esterna.
Tra le particolarità più interessanti di Hagazussa, vi è infatti il soffermarsi da parte di Feigelfeld sulla deriva psicologica di Albrun, una crisi frutto della sua condizione di isolamento e di segregazione. In tal senso, il personaggio di Swinda (Tanja Petrovsky) assume i tratti di vero e proprio diavolo tentatore nei suoi confronti, non solo rappresentato attraverso l’addentrarsi di Feigelfeld nel simbolismo cristiano della mela (un elemento ricorrente nel film, insieme ai serpenti), ma evidenziato anche nel tentativo operato dal regista di veicolare attraverso il suo personaggio la commistione tra la promessa dell’amicizia e la volontà dell’abuso, trasformando così l’indifferenza comunitaria in pura azione materiale, cruda e violenta: un’azione che sembra apparentemente richiedere una risposta altrettanto brutale, attingendo ad una compensazione che si pone al di là di ogni etica e morale.
Pertanto, Feigelfeld amalgama sapientemente nel film il reale con il sovrannaturale per permeare le vicende di Hagazussa di un alone di mistero estremamente percepibile, ma anche per cercare di non ridurre la trama della sua opera a qualcosa che possa essere funzionalmente compreso, assimilato e spiegato. Il ritmo lento del film, il frequente uso del chiaroscuro nella fotografia, la frequenza di suoni e di sussurri dalla dubbia provenienza sono solo alcuni degli accorgimenti ai quali Feigelfeld ricorre per celare la reale natura della sua indagine, assegnando loro un valore frammentario e cercando così di disconnettere sensibilmente l’esperienza spettatoriale. Hagazussa prosegue dunque un trend recente di opere dedicate alla figura della strega, senza allo stesso tempo servirsi eccessivamente degli stilemi propri del genere horror. Lukas Feigelfeld realizza una buona opera di debutto che, sebbene scavi a fondo nel folklore altomedievale, si dimostra comunque in grado di presentare un proprio immaginario preciso, con il valore aggiunto di un’analisi psicologica universale facilmente adattabile alla contemporaneità.
Daniele Sacchi