Hard to Be a God (2013), magnum opus di Aleksej German, è un film sconvolgente, un delirio semiotico sfuggente, criptico, a tratti indecifrabile. German si allontana da ogni categorizzazione e genere per proporre un’esperienza totalizzante della rovina, un affresco sudicio, lurido e rivoltante del degrado umano. Adattamento dell’omonimo romanzo di Arkadij e Boris Strugackij (autori anche di Picnic sul ciglio della strada, fonte d’ispirazione per Stalker di Andrej Tarkovskij), Hard to Be a God immerge lo spettatore in un mare di putridume e violenza dal quale non sembra esserci alcuna possibilità di ritorno, scardinando ogni regola e convenzione filmica.
L’idea di adattare il romanzo dei fratelli Strugackij nasce in Aleksej German già negli anni ’60, ma l’apparato censorio sovietico non concede l’autorizzazione ad avviare il progetto, ritenendolo inappropriato e non in linea con le politiche di regime. Le riprese di Hard to Be a God iniziano così ben 40 anni dopo, nel 2000, in quella che è solo una prima fase di un processo produttivo molto lungo che viene infine portato a termine dal figlio di German a causa della scomparsa del regista nel febbraio 2013. I motivi che si celano dietro a una gestazione del film così dilatata nel tempo sono evidenti sin dal suo incipit: Hard to Be a God è un lavoro monumentale, ricco di dettagli in ogni sua inquadratura, un’opera impossibile da dissezionare in tutte le sue parti.
In termini narrativi, il film di Aleksej German segue una traccia iniziale ben definita per poi lasciarsi andare in un flusso di coscienza visuale irriducibile ad ogni spiegazione. Un gruppo di scienziati terrestri si reca in incognito sul pianeta Arkanar, un ecosistema identico a quello della Terra abitato da una civiltà simile a quella umana. Gli abitanti di Arkanar sono tuttavia bloccati da secoli nel Medioevo: il sistema feudale è riuscito ad imporsi in una maniera tale da impedire ogni forma di progresso. Il compito degli scienziati terrestri è studiare passivamente il comportamento della civiltà locale per capire i motivi che si celano dietro all’arretratezza culturale, sociale e politica del pianeta, cercando allo stesso tempo di non influenzarne lo sviluppo.
Nel corso di Hard to Be a God, lo spettatore si trova così a seguire le gesta dello scienziato Don Rumata (Leonid Yarmolnik), il quale si finge figlio di una divinità pagana in modo da facilitare il suo ingresso nella società per osservare così da una posizione privilegiata i comportamenti degli abitanti di Arkanar. Il film si apre in medias res, con Rumata già pienamente inserito nel contesto feudale del pianeta. Il contrasto tra il comportamento dei locali e di Rumata appare tuttavia evidente agli occhi dello spettatore: lo scienziato, infatti, cerca in diverse occasioni di risvegliare nei suoi schiavi il lume della ragione (o, forse, cerca più semplicemente di alleviare le loro pene), suonando il clarinetto e recitando poesie. La popolazione, dal canto suo, è invece completamente folle, gli intellettuali vengono eliminati e l’unico mantra riconoscibile sembra essere la costante prevaricazione sull’alterità.
Il bianco e nero dell’immagine enfatizza visivamente la follia collettiva di Arkanar creando un’atmosfera grezza, fortemente permeata da contrasti tra luci ed ombre che evidenziano con efficacia la perenne condizione di disagio fisico e mentale connaturata negli abitanti del pianeta. La dissoluzione spirituale e corporale si presenta infatti come un effettivo statuto esistenziale: per gli abitanti di Arkanar non sembra esserci alcuna possibilità di redenzione e di salvezza. Lo stesso Rumata si rende conto di quanto sia «difficile essere un Dio» all’interno di un orizzonte segnico di questo tipo, tradendo progressivamente – e probabilmente inconsapevolmente – l’intento della spedizione terrestre, diventando a sua volta parte di un sistema talmente tanto corrotto da essere ormai irrecuperabile.
Hard to Be a God celebra così la categoria estetica del brutto in tutte le sue forme, attribuendo allo stesso tempo alla macchina da presa un ruolo fondamentale nell’economia complessiva del film. La macchina da presa infatti è un vero e proprio soggetto-oggetto: i personaggi sono consapevoli della sua presenza e vi interagiscono in diverse occasioni, reagendo in modi imprevedibili di fronte ad essa. Aleksej German ricorre inoltre alla strategia visiva del piano sequenza per mostraci un mondo che, per quanto orribile e brutale, si presenta come irrimediabilmente vivo. In tal senso, se da un lato le modalità di world building di Hard to Be a God ricordano alcune pellicole del passato, come Marketa Lazarová (1967, František Vláčil) o Sul globo d’argento (1988, Andrzej Żuławski), dall’altro appaiono tese verso la costruzione di qualcosa di nuovo. L’Arkanar di German non è una mera rappresentazione classica del Medioevo, ma un tentativo esplicito di plasmare una nuova cultura con le proprie dinamiche sociali difficilmente comprensibili da uno sguardo esterno, un’operazione che quasi ricorda – con le dovute differenze di forma e di contenuto – il ciclo di Dune di Frank Herbert. German viaggia così sul confine tra il conosciuto e lo sconosciuto rompendo però con ogni tradizione consolidata, restituendoci un racconto che mira, a modo suo, a farci riscoprire la bellezza della nostra realtà attraverso la rappresentazione della totale nullificazione dell’essere umano.
Daniele Sacchi