His Three Daughters, la recensione del film

His Three Daughters

His Three Daughters è un ritratto sentito e sofferto di tre sorelle riunite per prendersi cura del padre malato. Uscito in sordina su Netflix un paio di mesi fa, il film di Azazel Jacobs è una sorta di Kammerspiel moderno, un dramma da camera di impronta teatrale che si focalizza più sulla relazione tra le tre protagoniste che sull’intreccio in sé. Perché la trama di His Three Daughters non è realmente importante, è una scusa per cercare di penetrare a fondo quella che di fatto è la presa di coscienza dell’inevitabile, attraverso l’esame del rapporto che lega Katie (Carrie Coon), Rachel (Natasha Lyonne) e Christina (Elizabeth Olsen).

Girato quasi interamente all’interno dell’appartamento di Rachel a New York City, dove il padre Vincent (Jay O. Sanders) sta trascorrendo i suoi ultimi giorni assistito dalle tre figlie, il film di Jacobs tratta con profonda sensibilità la questione relativa alle cure palliative e al fine vita. Lo fa senza mai cadere nel tranello di trasformarla in un “tema”, muovendosi tra dubbi etici – centralizzati in particolar modo nella figura dedita a gestire questa situazione, l’assistente d’ospizio Angel (Rudy Galvan) – e dilemmi morali individuando sempre un punto in comune: il continuo incontro-scontro tra le tre sorelle.

Non è un caso che Vincent non sia mai al centro della scena nel corso del film, se non nell’ultimo atto. A differenza di un’opera come The Whale di Darren Aronofsky, nella quale il tentativo di riconnessione umana prendeva le mosse dal desiderio del malato, o come nel (fenomenale) The Father di Florian Zeller, qui il focus è direzionato interamente sui parenti che si trovano a dover gestire qualcosa di estremamente complicato a livello emotivo e personale, offrendo una prospettiva diversa. La presenza dell’uomo rimane sullo sfondo, evidenziata solamente dai costanti segnali acustici del macchinario a cui è collegato il suo cuore, o dalla porta che delimita la sua stanza dal resto della casa. È un rimosso che è ancora datità presente, un vuoto che è concreto e che non può essere messo tra parentesi.

Non si tratta, però, come accadeva invece in Mass di Fran Kranz, di una possibile elaborazione o di una ricerca di catarsi. Nonostante tutto, nonostante la rigidità di Katie, gli eccessi di Rachel o l’apparente aura da “vita perfetta” che accompagna Christina, il peso della sofferenza non può schiacciare tre sensibilità così tanto diverse quanto affini. Jacobs si sofferma sui piccoli gesti, dal sottolineare l’attitudine schietta e pragmatica di Katie sino ad arrivare ad enfatizzare la spiritualità hippie di Christina, nel tentativo di mostrare il progressivo avvicinamento tra disposizioni d’animo così diverse. Ma uno spazio speciale il regista statunitense lo riserva al personaggio di Rachel, che affronta nel silenzio ogni accusa, da quelle più giustificate a quelle più gratuite, tanto che spetterà al suo compagno Benjy (Jovan Adepo) il compito di sottolineare il suo ruolo e i suoi sacrifici in una delle sequenze più belle del film (insieme ai meravigliosi e toccanti momenti conclusivi).

Oltre a mettere in scena un certo minimalismo estetico senza mai apparire come artificioso o costruito (il punto più debole, ad esempio, del già citato Mass), His Three Daughters si distingue per la capacità di immergere lo spettatore in un microcosmo familiare autentico dove ad emergere, grazie soprattutto a un montaggio intimistico e alle prove attoriali di gran spessore delle tre protagoniste, è la forza e il valore del legame con gli altri.

Daniele Sacchi