Kenji Mizoguchi è, con Yasujirō Ozu e Akira Kurosawa, uno dei più grandi cineasti giapponesi del Novecento, un regista in grado di influenzare persino il cinema occidentale con il suo estro e con la sua bravura. Tra i suoi film più rappresentativi e importanti, I racconti della luna pallida d’agosto (1953) si presenta allo sguardo spettatoriale come una vera e propria summa della sua poetica cinematografica, un’opera in grado di restituire attraverso l’impatto delle sue immagini l’insieme di aspetti, tematici e stilistici, che caratterizzano la visione complessiva del suo autore.
L’immaginario proposto da Mizoguchi cattura e rapisce, ma allo stesso tempo pone le sue solide radici sui confini del reale, creando così molteplici orizzonti di senso che vedono nella commistione tra il vero e il fantastico un trait d’union fondamentale. I racconti della luna pallida d’agosto è ambientato in Giappone nel 16esimo secolo, in pieno periodo Sengoku. Il vasaio Genjūrō (Masayuki Mori) e il cognato Tōbei (Eitarō Ozawa) vivono con le mogli Miyagi (Kinuyo Tanaka) e Ohama (Mitsuko Mito) nella provincia di Ōmi. In seguito al feroce saccheggio del loro villaggio attuato da alcuni soldati locali, le due famiglie si trovano costrette a fuggire e a cercare di sopravvivere altrove.
È in questo contesto che Kenji Mizoguchi decide di inserire una critica tagliente nei riguardi della condizione della donna nel suo Paese, instaurando un’analogia tra la situazione raccontata nel film e il Giappone del dopoguerra. Cercando di evitare anacronismi di sorta, la riflessione di Mizoguchi prende le mosse non da forzati parallelismi storici, bensì dai desideri, dalle differenti possibilità e dalle attitudini che determinano i personaggi maschili e femminili del suo film. In particolare, ne I racconti della luna pallida d’agosto, la donna viene rappresentata in una condizione di sottomissione, obbligata a piegarsi al volere maschile, diventando entità tentatrice – pensiamo alla figura della misteriosa Lady Wakasa (Machiko Kyō) – o prostituta.
Di contro, l’uomo si trova in una netta posizione di vantaggio. L’uomo, infatti, può decidere del suo destino, non solo nei limiti di ciò che la sua condizione economica gli può permettere, ma operando anche al di fuori di essa. A tal proposito, i personaggi di Genjūrō e di Tōbei appaiono come letteralmente consumati dai propri desideri personali. Il primo è ossessionato dal denaro che può ottenere attraverso la sua arte, mentre il secondo vuole a tutti i costi diventare un samurai, attirato dalla posizione di potere di quest’ultimi. L’integrità famigliare passa purtroppo in secondo piano: all’uomo spetta il dominio della guerra e del denaro, mentre la donna viene confinata in uno spazio ristretto e limitato che consiste perlopiù nella cura dei figli e nella prostituzione.
A fianco alla marcata critica sociale, Mizoguchi assegna una precisa identità artistica al proprio lavoro che sfida le convenzioni del tempo e che anticipa alcune delle innovazioni del cinema europeo e americano del secondo Novecento. I racconti della luna pallida d’agosto tralascia le tecniche narrative più tradizionali per elaborare percorsi visivi in cui la profondità di campo e il ricorso al piano sequenza si danno come assoluti protagonisti, senza causare alcun spaesamento in termini di ricezione spettatoriale ma, anzi, contribuendo ad acuire il contrasto tra la brutalità del realismo di alcune sequenze e l’alone immaginifico che le permea.
In tal senso, in continuità con il ricco folklore del Giappone, nel film assume un’importanza sostanziale il fantastico e la figura del fantasma. L’incontro con lo spettrale è un elemento fondamentale della tradizione giapponese, e nel caso specifico de I racconti della luna pallida d’agosto assume i tratti di un incontro con il corporeo. Il fantasma diventa carne, un sostrato visibile e percepibile, indistinguibile dal corpo reale. Allo stesso tempo, l’impossibile diventa possibile – i vasi di Genjūrō resistono intatti all’assedio dei soldati – e la natura del reale si presenta così come cangiante e imprevedibile. Nella trasformazione di ciò che non esiste in materia concreta, Mizoguchi altera il reame del possibile per rendere ancora più potenti e vividi i suoi moniti, nella speranza che vengano, eventualmente, ascoltati e raccolti.
Daniele Sacchi