Il buco, film presentato lo scorso anno al TIFF e recentemente distribuito da Netflix, è un thriller dalle atmosfere horror che propone una timida ricerca stilistica a fianco ad una critica sociale annacquata e scialba. Il lungometraggio d’esordio di Galder Gaztelu-Urrutia è un’occasione sprecata, un tentativo di rilettura dello scontro dicotomico basso-alto che cerca di andare al di là del già visto ma senza riuscirci fino in fondo. Il regista spagnolo gratta solo la superficie degli elementi che vorrebbe approfondire, muovendosi a tentoni nel cercar di coniugare la concretezza del reale con alcune suggestioni astratte che però non sembrano andare da nessuna parte.
Al centro della trama vi è un sistema carcerario strutturato verticalmente, simile ad una torre. Il cibo viene servito ai carcerati con una piattaforma che si muove tra i numerosi piani della prigione (occupati da due persone l’uno), passando attraverso un buco nel soffitto e nel pavimento di ogni cella. Come facilmente intuibile, il cibo non è sufficiente per sfamare l’intero carcere e chi si trova nei piani inferiori è costretto a fare la fame o a trovare modi alternativi – e terribili – per nutrirsi. I prigionieri, tuttavia, vengono spostati di piano ogni mese: chi mangia oggi potrebbe non essere altrettanto fortunato il mese successivo, e viceversa.
All’interno di questo sistema perverso che in teoria vorrebbe proporsi come una metafora politica e profondamente cinica dei rapporti intersoggettivi che regolano l’umanità, c’è spazio anche per chi, inconsapevole della reale natura del luogo, decide di rinchiudervisi autonomamente. È il caso ad esempio di Goreng (Ivàn Massagué), un uomo che come unico memento del mondo esterno tiene con sé un libro, il Don Chisciotte di Miguel de Cervantes. E, similmente al protagonista del romanzo, Goreng stesso si troverà a portare avanti all’interno della prigione una propria personale battaglia contro i mulini a vento: cercare di convincere gli altri prigionieri a razionare il cibo, in modo da permettere a tutti di mangiare.
Non lontano come setting e feeling da opere come Cube (1997, Vincenzo Natali) o – volendo – dalla saga di Saw, Il buco non brilla moltissimo per originalità ma riesce perlomeno ad adottare qualche soluzione stilistica apprezzabile. Il minimalismo della messa in scena favorisce, insieme ai toni spesso grigi e cupi della fotografia, l’emergere di una costante sensazione di claustrofobia, alimentata ulteriormente dalla ripetizione costante del rumore che annuncia l’arrivo della piattaforma del cibo. Alcuni dialoghi grotteschi tra Goreng e il suo compagno di cella, Trimagasi (Zorion Eguileor), sono a loro volta particolarmente macabri nei contenuti e contribuiscono a sottolineare efficacemente la brutalità della condizione vissuta dai personaggi nella prigione.
Soprassedendo sulla componente gore e splatter purtroppo solamente accennata (una sua accentuazione avrebbe, forse, aiutato perlomeno nella resa visiva), i veri problemi de Il buco risiedono perlopiù nel tono e negli scopi. Galder Gaztelu-Urrutia – in concorso di colpa con gli sceneggiatori David Desola e Pedro Rivero – presenta il suo film come una sorta di trattato sociopolitico for dummies, ricco di esposizioni e di scambi di parole incredibilmente banali e superficiali, trattando essenzialmente lo spettatore come un osservatore ingenuo e inconsapevole. Il buco, per quanto possa anche apparire come un prodotto sufficiente di intrattenimento, fallisce proprio nel suo volersi proporre come qualcosa di “superiore”, cercando di strizzare l’occhio allo spettatore mediamente acculturato ma riuscendo solamente nell’operazione inversa di risultare insopportabilmente didascalico.
Inoltre, il cambio di registro che si può rilevare nel corso dell’ultimo atto del film tradisce tutto quanto costruito dal regista spagnolo nel resto dell’opera. Se da un lato, in un’ottica ideale, il passare dal piano concreto a quello simbolico non è mai, di per sé, una cattiva idea e anzi, è un topos ricorrente nella storia del cinema, dall’altro è innegabile come questa trasformazione sia repentina e poco giustificata. Il buco è un prodotto incompleto, incapace di trovare una propria dimensione adeguata all’interno del panorama cinematografico contemporaneo: è uno sguardo semplicistico sulla realtà e sui suoi meccanismi che non tiene conto della complessità dell’esistenza umana e degli apparati sociali e politici che la strutturano.
Daniele Sacchi