Il cibo come vita e passione, l’amore come corollario di tale consapevolezza. Il gusto delle cose di Trần Anh Hùng prende le mosse dal romanzo dell’autore svizzero Marcel Rouff del 1920 La vie et la passion de Dodin Bouffant, gourmet – oltre che dalla vita del gastronomo e letterato Anthelme Brillat-Savarin, ricordato soprattutto per il suo testo fondamentale La fisiologia del gusto – per portare sul grande schermo un film che vive della vividezza delle sue immagini, dove alla cura per la messa in scena viene affiancata la medesima cura esibita dai suoi protagonisti nella realizzazione di lunghe e complesse ricette. La cucina intesa come vera e propria arte, quindi, nonché come pura forma di creatività e di espressione di sentimento.
A distanza di più di vent’anni dal biopic sulla scrittrice George Sand I figli del secolo, ne Il gusto delle cose Juliette Binoche torna a recitare con l’ex compagno Benoît Magimel in un film che li vede entrambi protagonisti di una relazione delicata sia dal punto di vista professionale sia da quello amoroso, un rapporto peculiare accompagnato da atmosfere e suggestioni dal tipico sapore ottocentesco. L’anno è infatti il 1885 e Magimel, dopo la sua magistrale prova attoriale in Pacifiction di Albert Serra, veste qui i panni di Dodin Bouffant, rinomato gastronomo francese che lavora insieme alla formidabile cuoca Eugénie, interpretata appunto da Juliette Binoche. Dopo aver partecipato ad un magniloquente – ma insoddisfacente – ricevimento organizzato da un principe ereditario, Dodin deciderà di invitare a sua volta il principe a provare un menu preparato ad hoc per lui e la cui portata centrale consisterà nell’umile pot-au-feu, un bollito contadino di manzo e di verdure.
Non è né un dramma in senso stretto né un melò, Il gusto delle cose, anzi, per certi versi il film di Trần Anh Hùng rifugge (e lo fa consapevolmente) dalle collocazioni ben precise, dalle chiavi di lettura banali, dalle necessità imperanti del racconto classico. L’intenzione, invece, è ben evidente sin dalle battute iniziali del film, con lo sguardo registico che si sofferma esplicitamente – e a lungo – sul cibo, non in una sua mera esaltazione estetica, bensì sulla preparazione degli ingredienti, sulla loro unione, e nello specifico sul valore della ricerca dell’amalgama culinaria perfetta. Non stupisce, da questo punto di vista, la reazione avversa di Dodin all’irrazionalità del ricevimento del principe nella sua composizione e nella sua eccessiva abbondanza, considerandolo di fatto come in piena antitesi rispetto alla sua idea di cucina.
Ed è solo attraverso la comprensione di quest’idea, e quindi dei processi e dei metodi di Dodin Bouffant, che la sua relazione con Eugénie potrà rivelarsi ai nostri occhi per quello che realmente è, specialmente nel gioco dicotomico tra l’accettazione di una reciproca condivisione amorosa e sessuale con il costante rifiuto da parte di Eugénie di convolare a nozze. Qui, tra gli spazi della tenuta di campagna dove il gastronomo e la cuoca condividono lo stesso tetto, l’affetto reciproco si fonde con il discorso culinario, finendo per raggiungere la sua più completa sublimazione nella sequenza in cui Dodin cucina per Eugénie.
A tal proposito, ad una regia sontuosa e paziente che si sofferma sui dettagli, sulle sottigliezze (pensiamo all’enfasi posta sulla maniglia della porta della camera da letto di Eugénie, sulla possibilità di un’apertura o di una chiusura) e sull’importanza dell’attesa, Trần Anh Hùng affianca la necessità ineliminabile di una prospettiva femminile. Non solo nello sguardo di Eugénie, ma anche nell’impegno dell’assistente Violette, nell’ingegno dell’avveniristica elettrocoltura applicata dalla madre della piccola Pauline e, soprattutto, nel grande talento emergente mostrato proprio da Pauline in cucina. Pur glissando su alcune questioni centrali – di nuovo, non preoccupandosi di dover adempiere ad alcun “obbligo” narrativo – che alla fine rimangono solamente ai margini, Il gusto delle cose colpisce in profondità con la sua coerenza e il suo sentimentalismo genuino, mai grossolano.
Daniele Sacchi