Uscito nel periodo a cavallo tra due capolavori come Diario di un ladro e Au Hasard Balthazar, Il processo di Giovanna d’Arco è sempre stato considerato come un film minore nel corpus cinematografico di Robert Bresson. In virtù dell’argomento affine, viene inoltre quasi automatico paragonare il film dell’autore francese con La passione di Giovanna d’Arco di Carl Theodor Dreyer, opera monumentale degli anni del muto che lavora attraverso gli sguardi, la mimica facciale e la corporeità della sua interprete, Renée Falconetti, per solcare le profondità delle vie del tragico e del perturbante. Si tratta, tuttavia, di un confronto improprio, che fatica a catturare la sottile poetica di Bresson, che di suo rifuggiva dalla vorace teatralità del film di Dreyer per cercare di dare forma ad un minimalismo diverso, edificato (anche) attraverso la spontaneità interpretativa dei suoi attori non professionisti.
La scena, ne Il processo di Giovanna d’Arco, è in tal senso dominata dall’esordiente Florence Delay nei panni della pulzella d’Orléans, a sua volta affiancata dal pittore Jean-Claude Fourneau, interprete del vescovo Pierre Cauchon. Nella sua crociata anti-teatrale, Bresson ricerca, «senza fare né “teatro” né “mascherata”» – lo scrive nelle Note sul cinematografo – «di trovare con parole storiche una verità non-storica». Il processo di Giovanna d’Arco si costituisce infatti a partire dai testi autentici del processo di Rouen. L’obiettivo non è però il voler ricostruire la realtà muovendosi nei territori del racconto storico, bensì quello di dipingere un ritratto di Giovanna d’Arco a partire dalle sue parole. L’immagine cinematografica, in tal senso, sembra quasi voler assurgere ad immagine iconografica.
Non è un caso che, come evidenzia anche Paul Schrader nella sua indagine sul trascendente nel cinema, Bresson citi esplicitamente nel corso del film un passaggio del processo in cui le autorità ecclesiastiche incalzano Giovanna d’Arco sulla possibile esistenza di immagini che la riguardano. Il dilemma iconologico è parte cruciale della storia della Chiesa, e qui diventa una cornice ambigua, in perenne oscillazione tra la semplice messa in scena del dilemma in sé – l’esistenza di icone da venerare, per il tribunale di Rouen, costituirebbe eresia – e tra il voler attuare una sublimazione, quasi metacinematografica, della figura di Giovanna d’Arco. Come suggerisce proprio Schrader, l’eresia iconoclasta sembra perpetrata dallo stesso Bresson, nell’evidenziare l’iconicità spirituale di Giovanna d’Arco in un universo senza Dio, in quanto espressione di un «trascendente indefinito».
Bresson, d’altronde, chiarifica immediatamente il suo intento nella sequenza d’apertura del film. La madre di Giovanna d’Arco è inquadrata di spalle, il viso e la schiena coperti da un velo scuro, mentre legge una dichiarazione, una denuncia di quanto accaduto alla figlia a causa degli «invidiosi» che l’hanno condannata. La sua figura rimane immobile mentre scorrono i titoli di testa, quasi a voler immortalare quanto sta per seguire – il processo stesso, mostrato quindi per analessi – come un’operazione delegittimante che, al di là del giudizio storico (il contesto, ovviamente, è quello della Guerra dei Cent’anni), può avere un’eco significativa tutt’oggi. Lo svolgimento del processo non può dunque che esibire la bramosia, la volontà di potenza, la hybris di chi vuole piegare e spezzare il partito avverso, al di là di ogni cosa.
Il tono austero del film, gli ambienti scarni, la regia essenziale, l’imprevedibilità della performance dei suoi non-attori: sono tutti elementi che co-operano insieme con lo scopo di culminare, infine, in una sequenza incredibilmente evocativa, quella del rogo, in grado di imporsi come una nuova immagine-icona a sé stante. La spiritualità del cinema di Bresson si dimostra evidente nei momenti conclusivi de Il processo di Giovanna d’Arco, dove alla raffigurazione tragica e dolorosa del martirio spetta un movimento opposto, un contraltare sublimante che si impone con vividezza e vigore nell’incontro – e conseguente scontro – tra il Reale e l’Immagine.
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Daniele Sacchi