In occasione del Giorno della Memoria, Rai 1 trasmetterà questa sera all’interno della rubrica “Speciale TG1” (e successivamente su RaiPlay) Il respiro di Shlomo, documentario su Shlomo Venezia ideato da Marcello Pezzetti e diretto da Ruggero Gabbai. Il documentario, prodotto da Fondazione Museo della Shoah e Rai Cinema, unisce la testimonianza di Shlomo Venezia sugli orrori avvenuti nel campo di concentramento e di sterminio di Auschwitz-Birkenau con le testimonianze sulla sua persona, espresse da figure come il giornalista e autore Roberto Olla e da alcuni familiari, come il figlio di Shlomo, Mario Venezia, e la nipote Michela. In tal senso, Il respiro di Shlomo è una messa in scena equilibrata che fonde l’esigenza e la necessità imperante di mantenere vivido il ricordo dei traumi del passato con uno sguardo più intimo su Shlomo e sull’esperienza mortificante che ne ha segnato, irrimediabilmente, la vita.
«Il Sonderkommando è il fuoco dell’inferno, l’ultimo girone, il centro dell’inferno. Auschwitz è l’inferno, sì, ma è l’inferno sulla Terra costruito dagli uomini. Shlomo ha conosciuto gli uomini che l’hanno costruito ed è riuscito a raccontarcelo, questo inferno». Le parole di Roberto Olla racchiudono alla perfezione l’importanza dell’opera di testimonianza di Shlomo Venezia, il quale in quanto membro proprio del Sonderkommando – i gruppi di deportati obbligati a collaborare con le SS, specialmente nelle camere a gas e nei forni crematori – si è trovato a strettissimo contatto con la brutalità del nazismo. Le parole di Shlomo sono dure, descrittive, poco empatiche e dritte al punto nel riportare tutti gli orrori a cui ha assistito, a partire dalla separazione con la madre e le sorelle appena giunti ad Auschwitz sino ad arrivare ai momenti più crudi della sua esperienza, come ad esempio nel ricordo delle attività del Sonderkommando, obbligato dalle SS a trasportare i corpi deceduti nelle camere a gas sino ai forni crematori.
Shlomo Venezia racconta tutto ciò con un rigore e con una compostezza che denotano una perfetta comprensione della gravità di un passato che, per lui particolarmente, oltre ad essere parte di una dimensione collettiva finisce per abbracciare inevitabilmente anche la sfera individuale, il suo vissuto personale, l’entrare direttamente a contatto con l’orrore. Venezia ha potuto vedere attraverso i propri occhi, come protagonista involontario, la messa in atto sistematica di uno sterminio genocida, disumano e disumanizzante. Da questo punto di vista, Il respiro di Shlomo mette in scena una interessante riflessione sull’enigma dello sguardo, affiancando con cura la compostezza dell’uomo con un’indagine più intima sulla sua persona attraverso le testimonianze di chi lo ha conosciuto.
È qui, nel tentativo di fare luce su questo enigma fondamentale, che emerge il respiro reale di Shlomo, non solo il respiro affannoso causato dalla perdita di un polmone nelle gallerie del campo di concentramento austriaco di Ebensee, non solo il respiro dovuto al peso del trauma nel ritornare ad Auschwitz e nel rivivere il passato («mi manca il respiro», dice Shlomo durante il suo racconto), ma soprattutto il respiro di un uomo che, nonostante tutto, ha sempre cercato di proteggere i suoi familiari da quello che, di fatto, rimane un orrore indicibile. Il respiro di un uomo estremamente consapevole.
Daniele Sacchi