Il robot selvaggio, la recensione del film

Il robot selvaggio

Era il 1999, Il gigante di ferro di Brad Bird commuoveva le sale, insegnandoci che l’umanità è una scelta e che anche una macchina programmata per la distruzione può conoscere l’amore se gli viene mostrato. Venticinque anni dopo arriva in sala Il robot selvaggio, in un’epoca in cui la tecnologia ha un volto e un peso ancora più importante nella società. La DreamWorks ritorna con un racconto potentissimo a ricordare che quello che definiamo “umanità” è un concetto più grande delle persone e può esistere anche senza di esse.

ROZZUM 7134 (Lupita Nyong’o) è un’unità robotica tuttofare che finisce per sbaglio su un’isola disabitata dagli umani. Una volta attivatasi cerca subito di perseguire ciò per cui è stata programmata: risolvere problemi. Avendo per sbaglio distrutto un nido di oche, Roz accoglie come missione quella di accudire l’unico uovo sopravvissuto, mettendo alla prova tutto ciò per cui era stata programmata. Il film diventa subito una rappresentazione della maternità – e in generale della genitorialità – ma anche dei vari modi di essere famiglia, nonché dell’importanza della comunità nello sviluppo e nella crescita degli individui.

Come ogni prodotto pensato per i più piccoli, anche Il robot selvaggio riesce a racchiudere in sé, in maniera semplice, tanti concetti. È un racconto profondo sulla diversità, sull’inclusione. Insomma, non siamo molto lontani dalla fiaba de Il brutto anatroccolo, e non è casuale che Chris Sanders (veterano Disney passato a DreamWorks) avesse incluso in maniera esplicita proprio questa favola nel suo primo cartone da regista: Lilo & Stitch.

La forza de Il robot selvaggio, tuttavia, risiede anche in altro. Ha tutti gli elementi della fiaba, e si presta a diventare un racconto eterno, popolare. La figura del robot ormai può essere considerata come una maschera, un personaggio dello storytelling moderno, esattamente come la volpe furba (qui Pedro Pascal), l’orso cattivo e le oche sciocche. Vi è inoltre una macchina programmata per eseguire pedissequamente uno specifico compito, al che porta all’altro argomento meravigliosamente sviluppato dalla pellicola, ovvero la tecnologia. Come questa creatura si mescola all’ambiente, riuscendo a convivere con la natura – con dei bellissimi riferimenti all’universo di Miyazaki – ricorda che il problema non è mai stato rappresentato dalla tecnologia in sé, ma dall’uomo. Un tratto singolare, infatti, è rappresentato senz’altro dalla visione “positiva” dell’intelligenza artificiale, una boccata d’aria fresca in un mare di prodotti che rappresentano l’AI come un elemento dagli esiti inesorabilmente negativi.

È interessante, inoltre, che, come nelle fiabe che si rispettino, è presente nel film una totale assenza dell’elemento umano, pur essendo tutti i personaggi delle rappresentazioni di aspetti diversi dell’uomo, ma con un occhio critico. Perché tralasciando il tema della famiglia e quello della diversità, il cuore del racconto sta nel rapporto dei personaggi con la loro programmazione, con ciò che pensano di essere destinati a fare. Non solo il robot, che capisce che prendersi cura di qualcuno non è inquadrabile in una serie di task finite, ma anche la volpe che realizza che non deve essere sempre disonesta, e così via.

Per quanto riguarda l’aspetto più “industriale” della pellicola, Il robot selvaggio è inequivocabilmente un film della DreamWorks. La casa di produzione, che ha sempre viaggiato testa a testa con la Disney, ha trovato negli anni il suo stile distintivo, caratterizzato da una qualità dell’animazione eccelsa e singolare, ibrida, composita e varia. Ma soprattutto, la DreamWorks ha capito come colmare i vuoti lasciati dalla Disney nell’immenso universo che è l’animazione per bambini: è onesta dove la Disney è trasognata. Già da Shrek (titolo che ha immancabilmente segnato la direzione dell’azienda), passando per Dragon Trainer (sempre di Sanders tra l’altro), la DreamWorks non addolcisce sempre la pillola, non cerca perennemente la correttezza, ed è proprio questo che rende i suoi film più accessibili, raggiungendo in maniera diretta e profonda il pubblico di tutte le età.

Pellicole come Il robot selvaggio sono quel tipo di prodotto originale di cui il cinema sente la mancanza e al quale il pubblico risponde immediatamente e con trasporto. Il film è tratto dall’omonima serie di libri illustrati ed è stato annunciato che presto diventerà una saga in tre capitoli. Un meccanismo già visto, ma che senz’altro, in questo caso, può funzionare perché ci troviamo davanti un adattamento originale che ha già una struttura solida alle sue spalle, cioè i libri, proprio come per Dragon Trainer. Uno dei pochi casi in cui un sequel è più che desiderabile.

Alberto Militello