Dopo due anni da Tre piani, lo scorso 20 aprile è uscito nelle sale italiane Il sol dell’avvenire, diretto da Nanni Moretti e in concorso alla 76esima edizione del Festival di Cannes. Nanni Moretti è Giovanni, un regista che sta girando un film ambientato nel 1956 durante l’invasione dell’Ungheria da parte dei sovietici. In quei giorni arriva in città, nel quartiere romano del Quarticciolo, anche il circo ungherese “Budavari”. Il film si articola su tre piani narrativi contemporaneamente: mentre sta girando il film, Giovanni ne sta anche scrivendo uno tratto da Il nuotatore di John Cheever e ne sta sognando un altro, cioè la storia di una giovane coppia raccontata nei decenni attraverso le più belle canzoni italiane.
Pur non essendo il musical sul “pasticcere trotzkista” che tanto aspettavamo, Moretti torna nel proprio universo riconoscibile, con un film intriso del suo cinema e della sua poetica, idiosincrasie incluse. Con tutte le (auto)citazioni del caso ripercorriamo molte situazioni dei suoi film precedenti, da Sogni d’oro in poi. Un tema, quello del cinema nel cinema, o la storia di un regista che fa un film, che Moretti ha affrontato più volte nel corso della sua filmografia, mettendosi con ironia al centro di discorsi sociali e politici.
Sono passati trent’anni da Caro Diario (1993) e cinquanta dal suo primo cortometraggio La sconfitta (1973) e forse ruota proprio attorno a questo il senso de Il sol dell’avvenire. Un film sulla fatica – fisica e psicologica – e sulla sconfitta politica e morale. Moretti ammette a noi, ma anche a se stesso, una certa (in)sofferenza e un senso di estraneità nei confronti del presente. Si tratta di una riflessione-chiave che, di fatto, viene esplicitata in una delle scene centrali del film. Giovanni fa visita sul set di un giovane regista prodotto da sua moglie (Margherita Buy) e, dopo aver interrotto le riprese di una scena violenta, inizia una dissertazione lunga dalla sera al mattino seguente sull’estetica della violenza. La ragione è sempre quella: le parole sono importanti. E le immagini pure. La scena si conclude con un piano sequenza che mostra Giovanni allontanarsi sconfitto dal set e sullo sfondo la scena di violenza che finalmente si compie, permettendo alla troupe di concludere le riprese. Moretti attore-autore viene a patti con la realtà, rassegnato nei confronti di un presente che gli è sempre più estraneo.
Il sol dell’avvenire è un film sul tempo, più che sui luoghi. Anche in questo film ritroviamo la struttura delle gag del suo cinema degli anni ‘70-’80, con la differenza che questa volta non c’è la stessa fluidità, non ci sono più gli stessi tempi comici perfetti dei suoi film precedenti. Le gag si inceppano. La sua lentissima e pianificata recitazione manca di ritmo, così come le diverse scene musicali. Del resto Moretti stesso non può pretendere di essere sempre uguale a se stesso e le soluzioni narrative e registiche che prima funzionavano, senza una struttura solida a sorreggerle, ora risultano forzate e storpiate.
Il sol dell’avvenire è il film di un Moretti che ha (quasi) raggiunto i settant’anni d’età e che riflette sul tempo che passa, aprendo una riflessione sulla senilità, sulla malinconia che sfiora la depressione e il pensiero del suicidio. Nella scena finale un ultimo omaggio al circo felliniano di Otto e mezzo, ma anche a Novecento di Bertolucci. Qui però non tornano solo i volti dei protagonisti del film, ma proprio tutti (o quasi) i volti del cinema di Moretti. Il tempo che passa, ancora una volta, e che si afferma come unica vera ed inesorabile certezza.
Martina Dell’Utri