Il trono di sangue (1957) è universalmente riconosciuto come uno dei migliori adattamenti del Macbeth di William Shakespeare. Curiosamente però, il film di Akira Kurosawa non è una riproduzione fedele della tragedia dell’autore inglese, bensì una vera e propria reinterpretazione ambientata nello scenario proprio del Giappone medievale. Kurosawa trasforma il Macbeth attraverso un’operazione di risemantizzazione semiotica, ricorrendo al contesto feudale giapponese con le sue lotte signorili e i suoi giochi di potere, senza tralasciare alcuni dei punti fondamentali del testo shakespeariano.
Gran parte del successo del film, infatti, è dovuto proprio alla sua attinenza strutturale e narrativa nei confronti dell’opera di riferimento. La trama si concentra nello specifico su Washizu Taketoki (l’analogo di Macbeth, interpretato da Toshirō Mifune), un samurai agli ordini di un signore locale, Tsuzuki. Insieme ad un altro samurai di rango inferiore, Miki (Banquo nel Macbeth, interpretato da Minoru Chiaki), Washizu sconfigge in battaglia i nemici del suo signore. I due, ritornando alla dimora di Tsuzuki per riscuotere la ricompensa per le loro azioni, incontrano uno spirito della foresta capace di prevedere il futuro. Secondo lo spirito, Washizu è destinato prima a salire di grado, poi a diventare il signore del feudo, mentre Miki prenderà il posto di Washizu al comando del primo forte, con la garanzia che il figlio diventerà a sua volte signore.
In un’analisi sommaria del soggetto, le analogie tra Il trono di sangue e Macbeth sono presto evidenti e proseguono per tutta la durata della pellicola. Tuttavia, il film di Akira Kurosawa è intriso di alcuni degli elementi tipici della sua idea di cinema, a partire non solo dalla scelta di ricorrere ad uno scenario strettamente legato alla sua terra ma anche più esplicitamente nello stile. In particolare, il regista giapponese permea l’intera opera di una precisa maestosità scenografica, in continuità con quanto già proposto ad esempio ne I sette samurai (1954). Le sequenze di azione presenti ne Il trono di sangue sono dinamiche ed energiche, ricche di campi lunghi che ne esaltano la grandiosità, in netta contrapposizione con quelle invece più dialogiche, focalizzate sui personaggi e dense di primi piani.
Inoltre, Kurosawa adopera spesso il wipe, preferendo utilizzare come transizione tra alcune scene lo scorrimento dei frame da uno all’altro piuttosto che rifarsi a delle tradizionali dissolvenze, creando dinamicità anche nel passaggio tra scene apparentemente prive di azioni significative. Inoltre, ne Il trono di sangue si può rilevare come anche l’ambiente abbia una propria specifica espressività (non a caso gran parte del film è stata girata nei pressi del Monte Fuji), dalla «foresta che si muove» sino alla frequente nebbia che sembra quasi rappresentare il progressivo decadere morale di Washizu.
A tal proposito, l’ascesa al potere di Washizu contiene molto della visione antropologica di Kurosawa. Rispetto ad esempio alla versione del Macbeth di Orson Welles del 1948, nel quale all’ascesa al potere del protagonista corrisponde un’inversa discesa nella follia, ne Il trono di sangue si assiste più direttamente ad un insieme di eventi di natura violenta che appaiono come irrimediabilmente necessari. Washizu è di fatto intrappolato nel destino profetizzatogli dallo spirito, condannato a realizzarlo attraverso la natura violenta dell’uomo – esemplificata ulteriormente da Lady Macbeth, il personaggio di Asaji (Isuzu Yamada). Il libero arbitrio sembra non giocare alcun ruolo, ergendosi a grande assente all’interno di uno schema che vede come suo elemento fondante la violenza ciclica, imperante e onnipresente dell’umanità.
Kurosawa riarticola così Shakespeare, rispettandone il lavoro e gli intenti ma facendo infine sua la storia di Macbeth. Il regista giapponese, con Il trono di sangue, consegna alla storia del cinema un’opera di grande valore culturale e filosofico, che attraverso la sua realizzazione tecnica e stilistica può di fatto essere considerata come un vero e proprio capolavoro non solo cinematografico, ma anche e soprattutto artistico.
Daniele Sacchi