L’imbalsamatore è il quarto lungometraggio di Matteo Garrone, autore che spesso sceglie storie che si svolgono ai margini della società, senza mai risultare retorico o ripetitivo. La cura tecnica e narrativa dei suoi lavori lo rendono uno degli artisti più interessanti del panorama italiano. L’imbalsamatore che dà il titolo al film è Peppino Profeta (Ernesto Mahieux), un solitario piccolo artigiano che un giorno incontra il giovane Valerio (Valerio Foglia Manzillo), bel ragazzo orfano di padre. Peppino sviluppa subito una simpatia particolare per Valerio, facendolo diventare suo apprendista e offrendogli così la possibilità di imparare un mestiere proficuo. Questa amicizia forte e insolita, tuttavia, degenera presto in una co-dipendenza tossica e dai risvolti tragici.
La cifra stilistica di Garrone risiede nel suo modo particolare di rappresentare il brutto, di trovare la vicenda umana in figure e ambienti ai margini, al limite col grottesco, ma mai caricaturali, in quanto sempre assolutamente reali. Volendo azzardare un parallelismo con la letteratura, si potrebbe dire che Garrone è un autore quanto mai verista, verghiano. Anche nei film più lontani dalla realtà, l’approccio rimane lo stesso. Anzi, pensando a Pinocchio (2019), si può dire che Geppetto è l’archetipo di tutti i protagonisti di Garrone. Geppetto, – come Peppino, come Marcello di Dogman (2018) o Luciano di Reality (2012) – vive ai margini della società, persegue un sogno impossibile, spesso nella forma di un miglioramento del proprio status, e nel cercare di apportare questo miglioramento finisce per peccare di hybris. Tornando al paragone letterario, si potrebbe quasi dire, in tal senso, che ogni personaggio possiede il suo carico di lupini. Questa sensibilità si riflette anche stilisticamente in un uso frequente del primo piano, spesso anche decentrato, come se il personaggio stesso non appartenesse all’inquadratura così come non appartiene alla società. Il tutto conferisce alle scene un certo senso di intimità, di immersione in una vita così lontana dallo spettatore eppure così vera.
La capacità di trovare dignità nella bruttezza è, quindi, la firma di Garrone e ne L’imbalsamatore se ne ha forse l’esempio più lampante. Il regista, infatti, ci permette di seguire meticolosamente il grottesco mestiere di Peppino, personaggio la cui vita è completamente permeata dal suo lavoro, che colleziona persone così come colleziona animali. Come nel suo lavoro cerca di immortalare l’animale in un momento, in una posa, allo stesso modo cerca di fissare Valerio nella propria vita, come un oggetto pregiato da ammirare e da collezionare. È, infatti, impossibile non notare echi tra la spiegazione di Peppino sul perché le persone desiderino impossessarsi di oggetti peculiari come gli animali imbalsamati e il comportamento dello stesso nei confronti del ragazzo. In questo discorso, però, seppur infastiditi dall’ossessione maniacale di Peppino per il suo pupillo, non si riesce a non sentirsi vicini alla “creatura-Peppino” che – anche se in maniera tutt’altro che accettabile – vive una delle paure più comuni, ovvero la solitudine. Lo si guarda con orrore, ma anche con pena.
L’imbalsamatore è un film in cui lo stile dell’autore è già pienamente definito e a cui seguiranno altri lavori che andranno ad approfondire e ad affinare l’approccio alla vicenda umana che rende il cinema di Garrone tra i più interessanti del momento, in Italia. Uno stile che mira a indagare la natura umana senza mai risultare in opere vuote, retoriche o banali, e un autore che prova ancora a raccontare l’uomo attraverso le storie e non attraverso le etichette.
Alberto Militello