Quanto conta l’immagine nel mondo di oggi? Quanto incide la nostra persona digitale sul nostro rapporto con la società? Quanto in là può spingersi una bugia? Inventing Anna, miniserie creata e prodotta da Shonda Rhimes per Netflix, sembra voler approfondire proprio questi quesiti, unitamente a un’analisi della società dei millennials e dei meccanismi che la coordinano. La veterana della TV americana, creatrice di Grey’s Anatomy (2005-in corso), ha realizzato un prodotto che parla al presente, un’opera imperfetta ma che porta a ragionare su diverse questioni importanti.
In nove episodi seguiamo la costruzione di un articolo da parte della giornalista d’inchiesta Vivian Kent (Anna Chlumsky), oscurata da uno scandalo mediatico e in cerca di riacquistare credibilità nel mondo giornalistico. Vivian sceglie così di concentrarsi su quello che sembra inizialmente un caso di cronaca curioso, ma banale: una finta ereditiera è stata incarcerata e accusata di aver frodato diverse banche americane, e le informazioni sulla sua identità non si sa se siano vere o false. Una persona alla volta, un post dopo l’altro, si assiste alla ricostruzione della vita del personaggio, ma anche, come suggerisce il titolo della serie, alla sua effettiva nascita. Una foto con la persona giusta, una piccola omissione, un intervento azzeccato a un party mondano, un pezzettino alla volta la personalità di Anna Delvey (Julia Garner) viene creata in risposta all’ambiente e alle situazioni che le si presentano. Ostentando una vita lussuosa su Instagram, Anna raccoglie attorno a sé un’orbita di invidiosi e arrampicatori sociali, presentandosi e agendo come una mina vagante, una fonte immensa di opportunità e ricchezza. E se fosse tutto falso? Nella società americana non sembra importare, finché i soldi e il lusso girano.
Ed è proprio il debole che la società attuale riversa per le personalità magnetiche l’oggetto vero e proprio della serie, ingigantito da un sistema governato dal privato e dalla forza degli individui che permette la realizzazione di operazioni come quella intrapresa dal personaggio di Anna Delvey. Inoltre, qual è la definizione di un “personaggio”? L’aspetto più interessante della serie è, infatti, quello di giocare sulla soglia della verosimiglianza: l’inizio di ogni puntata recita «basato su una storia vera, tranne per le parti che sono completamente inventate», mettendo l’accento sull’ossessione generale dell’industria audiovisiva per la storia vera, come se la finzione non avesse più posto e ci fosse sempre bisogno di sapere che ciò che si vede è vero, esattamente come i personaggi della serie nei confronti di Anna. Purtroppo, l’esito di questo stratagemma si conclude nell’ennesima storia vera che, per quanto interessante e articolata, continua ad affermare il poco spazio che ha l’evoluzione della fiction nel mondo attuale.
Un altro tema trattato in Inventing Anna riguarda i millennials e la loro continua critica e autocritica. Uno dei punti che spezza l’opinione pubblica sul caso di Anna Delvey è la percezione che la sua operazione parlasse a nome di un’intera generazione, quella dei millennials, percepita come pigra e in continua ricerca di scorciatoie per evitare il “duro lavoro” raccontato dai cosiddetti boomers, non comprendendo il fatto che, molto probabilmente, ad essere cambiati sono solamente i mezzi: l’impalcatura di inganni e di imbrogli messa in piedi da Anna è frutto di una mente calcolatrice e geniale, non certo pigra. In conclusione, con Inventing Anna ci troviamo davanti a una miniserie discreta, piena di passaggi che forse possono sembrare forzati e non sempre lineari, ma in grado di riflettere operativamente sulle dinamiche e sui paradossi che regolano la società odierna.
Alberto Militello