Io Capitano, in concorso all’80esima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, è il nuovo film di uno dei pochi maestri rimasti del cinema italiano, Matteo Garrone. Messi da parte i barocchismi e accantonate le incursioni mitico-fiabesche tipiche del suo cinema, questa volta il regista mette in scena una storia lineare e asciutta nello stile, dal messaggio attuale e potente. Garrone si “lascia andare” solo in un paio di occasioni, quando è la frontiera dell’onirico a prendere brevemente il sopravvento, ma nel complesso Io Capitano è interamente calato nella concretezza del dramma dei migranti.
Il film racconta il tentativo da parte di due giovani ragazzi senegalesi, Seydou e Moussa, di costruirsi un futuro migliore lasciando il loro Paese per provare la via europea. Garrone definisce il loro viaggio come un «viaggio epico», «un’Odissea contemporanea». Perché, di fatto, il lungo percorso che Seydou e Moussa si trovano a dover percorrere per cercare di raggiungere l’Europa è lunghissimo, irto di ostacoli, di dolore e sofferenza. Lasciati a piedi nel deserto, torturati nelle prigioni libiche, trattati come schiavi, i due ragazzi dovranno infine affrontare il pericoloso viaggio nel Mar Mediterraneo su un’imbarcazione precaria senza alcuna guida e senza certezze.
Matteo Garrone realizza uno splendido film di denuncia evitando di cadere nella facile retorica e nei falsi moralismi. Manca forse una puntualizzazione politica veramente pungente sul finale (quella che si percepisce con evidenza, invece, ne Il confine verde di Agnieszka Holland, altro film in concorso a Venezia su temi affini), ma le immagini del film sono sufficienti ad arrivare dritto al cuore. Le tragedie vissute dai due ragazzi, che sognano di raggiungere l’Europa per guadagnare con la loro musica e aiutare la famiglia, sono raccontate con grande consapevolezza, enfatizzando le enormi difficoltà che giovani, anziani, madri e bambini, devono affrontare quotidianamente.
Accompagnato dalle coinvolgenti composizioni sonore di Andrea Farri, Io Capitano sottolinea con disturbante chiarezza gli abusi e le vessazioni che queste persone subiscono da parte delle organizzazioni criminali che gestiscono quello che è un vero e proprio business migratorio. Ciò che emerge è l’attitudine oppressiva che deumanizza i migranti, li riduce a merce di scambio, li tortura e li schiavizza, per denaro o per futili motivi. In tutto questo, il sogno di Seydou (l’effettivo protagonista del film) si trasforma in un incubo, mitigato solamente dalla vicinanza manifestata dalle altre persone che si ritrovano nella sua stessa situazione e dalla sua insormontabile spinta alla vita.
Garrone lavora anche per giustapposizioni. La meravigliosa cornice desertica, ad esempio, diventa un orribile teatro e luogo di morte. L’amicizia tra Seydou e un altro migrante appare solo come un (bellissimo) momento transitorio all’interno di un mosaico infinitamente triste e doloroso. I buoni propositi per il futuro dei due ragazzi senegalesi si scontrano con una realtà difficile i cui problemi, lo sappiamo, non termineranno nemmeno con il loro eventuale arrivo in Europa. Ma loro non lo possono sapere, perché sono guidati da un’innocenza dello spirito che Garrone riesce a catturare alla perfezione, in quello che è a tutti gli effetti un lucidissimo sguardo sul contemporaneo.
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Daniele Sacchi