Tra i pochi cineasti australiani che al giorno d’oggi riescono ad emergere al di fuori dei confini del loro Paese è impossibile non citare Jennifer Kent, una delle registe donne contemporanee il cui lavoro non può che essere annoverato tra i più interessati all’interno del panorama cinematografico attuale. Dopo una breve parentesi come attrice in alcune serie tv australiane (Murder Call la più celebre), Jennifer Kent viene coinvolta come assistente di produzione in Dogville (2003) di Lars von Trier, per poi dedicarsi attivamente alla regia e avviare un proprio percorso creativo originale e per nulla scontato.
Monster (2005) gioca già un ruolo di primo piano nell’economia complessiva della filmografia della regista australiana. Il cortometraggio propone infatti un immaginario ben preciso che verrà poi ripreso nel film d’esordio di Jennifer Kent, The Babadook (2014), incominciando ad esplorare il tema della maternità. Nello specifico, Monster racconta la paura di un bambino verso un mostro che, a suo dire, si nasconderebbe dentro ad una bambola. La diffidenza della madre nei suoi confronti sparisce quando la natura della presenza sinistra si mostra effettivamente dinanzi al suo sguardo. In Monster, a differenza del successivo The Babadook, non c’è spazio per esplorazioni psicologiche minuziose o autoreferenziali: sospetti e perplessità cadono immediatamente per lasciare spazio a quello che di fatto è il punto centrale della questione, ossia la forza della protezione materna.
L’atmosfera horror che permea il corto emerge soprattutto dall’apparenza terrificante del mostro, entità che sembra quasi provenire da un certo cinema j-horror di fine anni ’90 e primi 2000. Con The Babadook, che riparte dall’idea narrativa di Monster corroborandola con nuove suggestioni nella forma del lungometraggio, il rimando sembra invece al cinema espressionista tedesco, con un accento particolare posto sul ruolo dell’ombra, sia da un punto di vista strettamente legato al modo in cui il maligno si presenta agli occhi dello spettatore ma anche da un punto di vista psicanalitico, come si vedrà in seguito. L’intreccio ripercorre quanto già raccontato in Monster, muovendosi tuttavia su binari leggermente diversi e approfondendo ulteriormente la questione della maternità, insieme al trauma della perdita.
Al centro del film vi sono le vicende del piccolo Samuel e di sua madre Amelia, rimasta vedova dopo un incidente stradale che ha causato la morte del marito poco prima della nascita del figlio. Il bambino, dal temperamento difficile, sostiene l’esistenza di un mostro che minaccia la vita della madre. Le sue credenze si tramuteranno purtroppo in realtà, con la comparsa di una figura chiamata Babadook che inizierà a perseguitare entrambi. Kent ripropone il nucleo narrativo fondante di Monster in una cornice nuova che si sofferma in particolar modo nello sviluppo della relazione madre-figlio, non limitandosi più alla rappresentazione di un rapporto di mera dipendenza da parte del secondo ma esaminandone anche le difficoltà intrinseche, specialmente in virtù della situazione di precarietà famigliare vissuta dai due, e la necessità di una reciprocità di affetti.
Nell’esame di queste dinamiche, la figura del Babadook si propone come l’espressione simbolica di un insieme di istanze nascoste ed invisibili ma terribilmente reali e presenti. Come anticipato, il sottotesto psicologico del film di Jennifer Kent è ben evidente e può essere interpretato attraverso il concetto junghiano di Ombra. Il Babadook non è solo un’ombra oscura e tenebrosa, concreta e materiale, che tormenta Samuel e Amelia, ma è anche una manifestazione del subconscio, un mezzo indirizzato a veicolare il tormento interiore provato dalla donna, nonché l’insieme di frustrazioni e criticità che Amelia non riesce ad esprimere durante la sua vita quotidiana. Ciò che viene sepolto e nascosto nei meandri più remoti della propria psiche ritorna, riemerge, proiettandosi in quanto Ombra sull’Altro e scatenando una tensione distruttiva che può essere placata solo dall’accettazione della sua presenza e forza.
Diversamente da Monster e da The Babadook, The Nightingale (2018) abbandona l’incursione nel tetro e nell’introspezione psicologica per lasciar spazio ad un revenge movie. Presentato durante la 75esima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, l’ultimo film di Jennifer Kent si è aggiudicato il Premio speciale della giuria e il Premio Marcello Mastroianni ad un attore emergente per Baykali Ganambarr. Rispetto ai film precedenti, il contesto è completamente differente. Nella Terra di Van Diemen (l’attuale Tasmania), un gruppo di coloni britannici appartenenti alla British Army commette un atto orrendo verso la giovane Clare e la sua famiglia, portando la ragazza a cercar vendetta nei loro confronti.
Accompagnata dall’aborigeno Billy, Clare si muove alla ricerca dei suoi assalitori in un film che mescola i tòpoi tipici dei film di vendetta con il period drama, in una sorta di western atipico dai contorni del racconto di viaggio in grado di proporre una riflessione non solo sugli effetti del colonialismo, ma anche e soprattutto sull’essere umano. Sebbene lontano dagli scenari delle opere precedenti, The Nightingale ritorna sulla lotta con i propri demoni abbandonando Jung e riflettendo invece sulla grezza e brutale realtà: una realtà di dolore e di sofferenza non più solo mentale, ma anche fisica. Il punto centrale, però, è sempre lo stesso: l’accettazione della natura intrinseca delle tensioni distruttive che spesso muovono le azioni umane, in un atto di comprensione che non vuole giustificarle ma semplicemente affermare la loro ineliminabile presenza.
Daniele Sacchi