Kill the Jockey di Luis Ortega, la recensione

Kill the Jockey

Kill the Jockey, o El Jockey, è il nuovo film del regista e sceneggiatore argentino Luis Ortega, presentato in concorso all’81esima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Conosciuto soprattutto per L’angelo del crimine (2018), Ortega presenta con Kill the Jockey un racconto insolito incentrato su due fantini, il leggendario Remo Manfredini, interpretato da Nahuel Pérez Biscayart (lo ricordiamo per la sua fantastica prova attoriale in 120 battiti al minuto di Robin Campillo), e Abril, interpretata da Úrsula Corberó (la Tokyo de La casa di carta).

Nel corso del film, Remo inizia ad abbracciare un comportamento mano a mano sempre più autodistruttivo, lasciandosi andare al consumo di alcool e all’abuso di sostanze. Nel giorno della corsa più importante della sua carriera, che tra le altre cose potrebbe risolvere i suoi debiti con il boss criminale Sirena (Daniel Gimenez Cacho), Remo subisce un grave incidente che lo manda in coma. Per l’uomo sembrano non esserci speranze di sopravvivenza, ma contro ogni pronostico Remo si risveglia all’improvviso. Colto da una crisi d’identità, il fantino fugge dall’ospedale travestendosi da donna, iniziando a vagare senza meta per le strade di Buenos Aires. Liberato dal peso della sua precedente identità, Remo comincia così a scoprire chi è realmente.

Appellandoci solamente all’intreccio potremmo immaginare diversi tipi di pellicole, dal cinema d’autore più introspettivo sino ad arrivare alla produzione di genere, magari thriller. Nulla di più sbagliato. Kill the Jockey è in realtà un’opera creativa e folle che mescola l’umorismo deadpan – alla Kaurismäki, per intenderci – con un taglio visivo surreale e insolito. A partire dalla caratterizzazione dei personaggi, tutti sopra le righe e senza freni, sino ad arrivare allo sviluppo narrativo in sé, Ortega riesce ad avvolgere di mistero ogni scena, in un racconto che si dimostra impossibile da prevedere.

Il film, ad esempio, si apre con un gangster che risveglia Remo conficcandogli una frusta da galoppo in gola. L’incipit prosegue con un ballo forsennato che vede Remo e Abril protagonisti, con l’elemento della danza provocatoria e sensuale che ritornerà anche in un’altra sequenza del film con al centro Mariana di Girolamo (la Ema di Pablo Larraín, qui in un ruolo simile ma minore). Tutto ciò mentre il boss Sirena viene costantemente mostrato insieme ad un neonato, il quale si dice sia un infante da anni. Kill the Jockey prosegue secondo continue coordinate non inquadrabili, in un crescendo di situazioni mano a mano sempre più ilari e fuori di testa.

Se la prima metà di Kill the Jockey è un egregio divertissement, la seconda parte si muove invece in una direzione differente, con la ricerca da parte di Remo di una libertà che è prima di tutto corporea. Meno incisivo rispetto alle piacevoli – per quanto frivole – assurdità iniziali, il discorso avanzato nel resto del film non sembra mai imporsi realmente come una datità concreta, risultando nel complesso come un timido tentativo di decostruire un certo modo di intendere la mascolinità a partire dal sovvertimento di un preciso immaginario (il fantino uomo considerato come migliore e “più eroico” rispetto alla donna, l’anacronismo e la corruzione morale della mentalità gangster, e così via), ma che finisce per perdersi lungo il percorso. Un peccato, viste le premesse del film, che comunque inquadra Luis Ortega come un regista da tenere d’occhio.

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Daniele Sacchi