Koyaanisqatsi (1982) è il primo capitolo della trilogia qatsi di Godfrey Reggio, una serie di documentari sperimentali ricchi di suggestioni e di riflessioni sull’uomo, sul suo ruolo nel mondo e sul rapporto con la natura e la tecnologia. L’aspetto che si presenta come strutturante dell’esperienza proposta dal regista statunitense è l’unione tra le immagini del film con la maestosa colonna sonora realizzata da Philip Glass. Le riflessioni proposte nel documentario, infatti, non derivano da alcuna discussione o linguaggio, ma emergono puramente dal montaggio visivo e sonoro, in un’operazione che cerca di sfruttare a dovere le potenzialità audiovisuali del medium cinematografico, lasciando ogni intento narrativo a margine.
L’unico momento in cui viene data una specifica rilevanza alla parola è nella spiegazione del titolo del film, che, insieme ad alcune profezie, viene ripetuto come un mantra in una delle tracce musicali proposte da Glass. Koyaanisqatsi, infatti, è un termine hopi – proveniente dunque dalla lingua parlata da una popolazione di nativi americani dell’Arizona – che significa “vita tumultuosa”, una vita folle, squilibrata, in disintegrazione. Più nel dettaglio, l’espressione Koyaanisqatsi rimanda ad uno stile di vita che necessita di un cambiamento profondo per poter ambire ad un miglioramento della propria condizione personale. La centralità dell’uomo è evidente nel discorso promosso da Reggio, centralità sottolineata a più riprese nel corso del film nell’esibizione di cosa effettivamente rappresenti la vita dell’essere umano sul nostro pianeta, se pensata in particolar modo nel rapporto con la tecnologia.
I primi momenti di Koyaanisqatsi, tuttavia, sono dedicati a mostrare una natura incontaminata, non ancora plasmata dall’azione umana. Come descrive lo stesso regista (cfr.), il film si occupa infatti di mostrare il passaggio da uno scenario in cui è la natura ad ospitare l’uomo ad un contesto in cui è invece la tecnologia a porsi come aspetto predominante. In particolare, Reggio non si limita a mostrare gli effetti del progresso tecnologico sull’umanità e sul mondo, bensì evidenzia come l’uomo si trovi ad essere irrimediabilmente legato ad esso: «non usiamo la tecnologia, la viviamo», ma soprattutto «non siamo più consapevoli della sua presenza». Grazie anche all’assenza di dialoghi chiarificatori, il documentario sperimentale di Godfrey Reggio si pone sulla linea di confine tra il prescrittivo e il descrittivo, in perfetto equilibrio tra il presentarsi come un commento sociale e il cercare di autodeterminarsi come opera artistica.
Tra le sequenze maggiormente suggestive di Koyaanisqatsi, spiccano soprattutto le riprese prima in slow motion e poi accelerate del caos dell’esperienza della vita urbana, i time-lapse che ci mostrano il passaggio del tempo attraverso punti di vista singolari (pensiamo alla scena della luna muoversi lentamente dietro ad un edificio), così come le particolari giustapposizioni visuali tra le fotografie satellitari delle città e le strutture dei microchip. Godfrey Reggio amplierà in seguito la propria indagine estetica e critica nei capitoli successivi della trilogia qatsi, Powaqqatsi (1988) e Naqoyqatsi (2002), e nell’affine Visitors (2013), senza però più raggiungere lo stesso equilibrio formale e contenutistico di Koyaanisqatsi, dimostrando tuttavia nel tempo una costanza visuale e tematica invidiabile, rappresentata dal suo personalissimo approccio alle possibilità espressive offerte dal cinema.
Daniele Sacchi