Siamo negli Stati Uniti, a cavallo tra la fine degli anni ’30 e l’inizio degli anni ’40, la guerra imperversa in Europa ma nella fiera itinerante di Clem Hoately (Willem Dafoe) si respira un’atmosfera diversa, quasi di equilibrio. Si tratta però di una stabilità costruita sull’immoralità, sull’illusione che la riduzione dell’umanità a spettacolo e a fenomeno da baraccone possa colmare i vuoti lasciati dai problemi del Reale, che in questa cornice viene di fatto messo tra parentesi. La fiera delle illusioni (Nightmare Alley) di Guillermo del Toro, nuovo adattamento del romanzo di William Lindsay Gresham dopo il film di Edmund Goulding del 1947, trasporta così il suo protagonista Stanton Carlisle (Bradley Cooper) in un microcosmo di freaks e figure ai margini nel quale i suoi tormenti più profondi non potranno che prendere inevitabilmente forma.
Dopo l’affascinante La forma dell’acqua, con cui il regista messicano si è portato a casa numerosi premi tra cui il Leone d’oro alla Mostra del Cinema di Venezia e gli Oscar al miglior film e alla miglior regia, del Toro torna di nuovo a dialogare a modo suo con il passato. Questa volta non sono più le suggestioni horror de Il mostro della laguna nera di Jack Arnold a fare da sfondo all’opera, bensì le atmosfere tipiche del noir, qui incarnate pienamente nel protagonista e sviluppate a dovere nella seconda metà del film. Presto, Stanton lascerà la fiera itinerante insieme alla compagna Molly (Rooney Mara) per prendere un percorso diverso, seguendo i vicoli tortuosi della sua mente e tramutando i suoi incubi in realtà.
Non stupisce, da questo punto di vista, il grande peso dato nel film alle frontiere del mentalismo, con i trucchi e le illusioni di Stanton che finiranno per plasmare e, di conseguenza, a rendere ancora più evidente la natura più intima dell’uomo, nonché la sua condizione interiore effettiva che di fatto non può che essere un riflesso della stessa matrice noir del film. Quello che stupisce, invece, è l’eccessiva dilatazione narrativa e lo stacco troppo netto tra le due parti che compongono La fiera delle illusioni, il quale si trova ad essere costituito da due anime separate, con la rappresentazione del progressivo disagio individuale di Stanton a tenerle precariamente unite.
Nonostante la coerenza nel tenere sempre sotto controllo – e a mettere sotto esame – le pulsioni distruttive del protagonista, dalla fiera delle “bestie” di Clem alla messa in scena delle macchinazioni truffaldine di Stanton vi è un salto di stile e di sostanza che sembra denotare una poca chiarezza di fondo nei riguardi della direzione complessiva del film. L’incertezza identitaria dell’opera di del Toro mal si sposa con l’evidente cura nella fotografia – il dop è Dan Laustsen, frequente collaboratore del regista – e con le buone prove attoriali, specialmente di Cate Blanchett nei panni dell’enigmatica psicologa e femme fatale Lilith Ritter. La fiera delle illusioni è una bella superficie, il riflesso di una visione autoriale consapevole, ma che in questa precisa istanza purtroppo non riesce ad andare al di là delle sue mere apparenze.
Daniele Sacchi