Una crisi, etimologicamente (il termine deriva dal verbo greco krino), non è nient’altro che una separazione. Può manifestarsi come un allontanamento dal proprio sé, se pensiamo ad una dimensione individuale o se ragioniamo in termini di frammentazione identitaria. Oppure, nel caso di una relazione intersoggettiva, si tratta di un’esplicita frattura con l’alterità. Una crisi è una disconnessione e cesura che può diventare permanente o che può essere risolta attraverso la messa in atto di un’effettiva separazione (o, generalmente parlando, con l’eliminazione delle cause scatenanti). Ne La notte (1961), Michelangelo Antonioni articola un orizzonte segnico che si muove sul doppio binario di una crisi del soggetto e di una crisi di coppia, prolungando il discorso avviato ne L’avventura (1960) ma percorrendo nuove coordinate, un discorso che proseguirà anche nel successivo L’eclisse (1962) formando un’ideale trilogia dedicata al tema dell’incomunicabilità – o una tetralogia, se vogliamo includere anche Il deserto rosso (1964).
La notte, per quanto da un punto di vista concettuale appaia come in stretta continuità con L’avventura, si presenta in realtà allo sguardo spettatoriale come un film molto differente rispetto all’opera che lo precede. Antonioni rompe infatti – con una forte verve autoriale – con la necessità di porre al centro del proprio film un intrigo di natura meramente narrativa. Se ne L’avventura troviamo in primo piano un mistero – la scomparsa di Anna – come vero e proprio perno drammatico attorno al quale sviluppare il singolare rapporto tra Sandro e Claudia, ne La notte, invece, non possiamo che lasciarci guidare da un flusso di coscienza per immagini che ci illustra progressivamente la condizione precaria del rapporto tra i due protagonisti. Una serata qualunque diventa un’occasione per Giovanni (Marcello Mastroianni) e Lidia (Jeanne Moreau) per mettere in discussione la loro relazione, con Antonioni che prima afferma implicitamente la presenza di una situazione di crisi pregressa tra i due, per poi renderla manifesta in un modo più esplicito e diretto.
Questa criticità innominabile – ma terribilmente presente – viene infatti suggerita sin dalle prime sequenze del film, quando è ancora giorno, per poi irrompere irrefrenabile nella notte. Il flirt di Giovanni con una paziente in un ospedale milanese – in cui è ricoverato, in condizioni molto gravi, un amico dell’uomo – è già il primo sintomo, evidente, che qualcosa nella coppia si è spezzato, ma è soprattutto il comportamento di Lidia a risultare chiarificatore di un’instabilità che, evidentemente, è meglio esibita che spiegata. La risposta corporea della donna ai comportamenti di Giovanni è più forte, infatti, di qualsiasi parola: Lidia piange fuori dall’ospedale, è distante nel viaggio in automobile con il marito, lo osserva da lontano mentre firma ad un ricevimento le copie del suo nuovo libro. Infine, mentre il ricevimento prosegue, la donna inizia a vagare senza meta per la città, quasi con una rinnovata libertà – una libertà, però, fittizia, caratterizzata dall’inquietudine e da perimetri incerti.
La notte, da un certo punto di vista, parla dunque di una forma di corruzione. Non materialistica o morale (o, per meglio dire, non solo, dal momento che vi è sicuramente una crisi collaterale anche secondo questi termini), bensì una degenerazione esistenziale. Giovanni e Lidia, spinti dalla noia e dal mantra borghese del «tanto bisogna fare qualcosa», si recano alla festa di un grande industriale, Gherardini. Qui, attraverso vie diverse ma co-dipendenti, i due fanno la conoscenza di Valentina (Monica Vitti), la figlia di Gherardini. Sarà questo incontro a scatenare le pulsioni distruttive della coppia, che nel corso della serata porteranno i due a raggiungere punti fermi e considerazioni effettive sullo statuto del loro matrimonio, riconfigurandosi di fatto come entità singole e indipendenti. Tuttavia, la frammentazione delle due individualità è talmente tanto radicata nella coppia da aver trasformato una crisi duale in una realtà unica, pervasiva e corrotta che raggiunge il suo apice massimo in una delle sequenze conclusive più potenti di tutta la storia del cinema.
Daniele Sacchi