Oltre ai resti del chiacchiericcio che ha accompagnato alla sua uscita La Passione di Cristo (Mel Gibson, 2004), composto perlopiù di polemiche sulla rappresentazione degli ebrei e sulla violenza estremamente grafica del titolo, cosa ci rimane oggi dell’opera del regista statunitense? Il film narra le ultime ore di vita di Gesù Cristo, mostrando allo spettatore il suo supplizio attraverso immagini molto crude, in quella che non vuole essere una ricostruzione fedele degli episodi biblici che lo riguardano bensì una reductio ad unum dell’esperienza cristologica.
Cristologia che ne La Passione di Cristo viene sublimata in quanto pura esperienza della sofferenza, del dolore, dell’agonia. Grazie all’utilizzo di un doppio artificiale, il corpo e la carne di Cristo (Jim Caviezel) vengono sapientemente trasformati da Gibson in un insieme disconnesso di ferite, lacerazioni e sangue. La flagellazione attuata dai romani come rituale precrocifissione funge da vero e proprio training ground per lo spettatore, per prepararlo all’escalation di violenza dell’ultima parte del film: la corona di spine, il doloroso trasporto della croce, i chiodi sulle mani e sui piedi, la lancia nel costato. Tutti elementi che rendono estremamente umano il trapasso dell’autoproclamato figlio di Dio, accompagnati allo stesso tempo dalla conseguenza sovrannaturale della sua morte, un terremoto in grado di causare uno squarcio nel tempio giudaico.
Sarebbe un peccato tuttavia ridurre La Passione di Cristo a un mero concentrato di estetica della violenza. Di particolare interesse ad esempio è l’incipit del film, che vede Gesù Cristo nel giardino di Getsemani pregare mentre una figura androgina e serpentina (Rosalinda Celentano) lo tenta invano. L’individuo, una chiara rappresentazione del demonio, riapparirà durante le torture subite da Cristo con in braccio un bambino deforme, a simboleggiare il male imperituro proprio dell’umanità in una sequenza dal forte contrasto simbolico.
La decisione di Gibson di adottare per i dialoghi l’aramaico e il latino garantisce inoltre a La Passione di Cristo un certo grado di realismo aggiuntivo che accompagna quello grafico delle torture e della violenza. C’è spazio anche per qualche flashback che ci mostra ulteriormente l’umanità di Cristo, la cui rappresentazione viene preferita rispetto alle sue abilità miracolose. Sono flashback puramente di accompagnamento, che non approfondiscono la sua vita ma che lasciano invece spazio al delinearsi del suo rapporto con gli apostoli e con la madre, la Vergine Maria (Maia Morgensten). Ad esempio, ci viene mostrato in montaggio parallelo la caduta di Cristo nel trasportare la croce, aiutato proprio da Maria a rialzarsi, insieme ad un episodio di gioventù simile. La figura della donna gioca pertanto un ruolo simbolico di supporto molto importante ne La passione di Cristo, come esemplificato anche da Maria Maddalena (Monica Bellucci), che accompagna in lacrime Gesù al suo destino insieme a Maria, e dalla ragazza che cerca di offrirgli dell’acqua da bere prima di essere allontanata dalle guardie romane.
Cosa ci rimane, dunque, de La passione di Cristo? Al di là del valore escatologico che potrebbe assumere per il singolo cristiano, l’opera di Gibson è prima di tutto un buon film che pone di fronte al suo spettatore l’enigma dell’umanità e il dolore come forma di catarsi ultima. Il mito di Gesù Cristo, traslato su pellicola in una forma così realistica e estremamente umana (per quanto densa di allegorie religiose), a partire dalle contraddizioni proprie di una concezione binaria del bene e del male sino ad arrivare a tematizzare la condizione ultima del sacrificio come atto d’amore, si erge così a metafora della vita.
Daniele Sacchi