La regina degli scacchi (qui il trailer) è la nuova sorprendente miniserie in 7 episodi creata da Scott Frank e Allan Scott e distribuita da Netflix. I due autori – il primo celebre per le sue sceneggiature di film come Out of Sight (1998, Steven Soderbergh), Minority Report (2002, Steven Spielberg) e Logan (2017, James Mangold), mentre il secondo è conosciuto soprattutto per la sua collaborazione con Nicolas Roeg – uniscono le proprie forze per realizzare un adattamento del romanzo The Queen’s Gambit di Walter Tevis, dedicato a raccontare il percorso di crescita della giovane scacchista prodigio Beth Harmon (interpretata da Anya Taylor-Joy). The Queen’s Gambit è anche il titolo originale della miniserie, che richiama esplicitamente una delle possibili aperture – la fase iniziale – di una partita di scacchi, il gambetto di donna. Tra l’altro, una curiosità interessante che purtroppo si perde con la versione italiana del titolo è il fatto che Beth in realtà non giochi mai tale apertura se non durante l’ultimo incontro mostrato nella serie.
Gli scacchi giocano ovviamente un ruolo fondamentale da un punto di vista narrativo, senza però apparire mai come predominanti o “invasivi”. La regina degli scacchi è, a tal proposito, un prodotto in grado di bilanciare perfettamente sia la sua componente coming of age sia gli aspetti maggiormente legati alla dimensione scacchista. Lo spettatore che non conosce il gioco viene accompagnato nella comprensione di alcuni concetti basilari, ma in seguito la narrazione – anche nel corso delle partite stesse – non si presenta mai come didascalica, preferendo invece lasciare un grande spazio alla risposta emotiva di Beth nei confronti di ciò che avviene sulla scacchiera. Lo spettatore appassionato, invece, trova dall’altro lato la miglior opera cinematografica e seriale mai realizzata sino ad ora sul gioco degli scacchi, in particolar modo per quanto riguarda la cura dei dettagli nella messa in scena delle partite, basate su incontri realmente accaduti e trasposte grazie alla supervisione di figure come Bruce Pandolfini e il leggendario Garri Kasparov.
In tal senso, oltre alla verosimiglianza nell’approccio della disciplina, troviamo anche una grande attenzione alla costruzione psicologica e caratteriale del personaggio di Beth Harmon, così come dei personaggi che via via incontra nel tentativo di diventare la miglior giocatrice di scacchi del mondo: dal custode dell’orfanotrofio dove Beth trascorre parte della sua infanzia e adolescenza (interpretato da Bill Camp) sino alla madre adottiva Alma (Marielle Heller), senza dimenticare alcuni dei principali avversari della ragazza come Harry Beltik (Harry Melling), Benny Watts (Thomas Brodie-Sangster) o Vasily Borgov (Marcin Dorociński). La regina degli scacchi sembra quasi essere un biopic “fittizio”, nel senso che potrebbe benissimo corrispondere ad una storia realmente accaduta sebbene di fatto non lo sia. I dettagli extrascacchistici sono a loro volta estremamente curati, sia nella ricostruzione degli Stati Uniti degli anni ’50 e ’60 per quanto riguarda non solo gli ambienti ma anche le dinamiche sociali dell’epoca, sia per l’attenzione data a peculiarità come ad esempio la moda del tempo, sottolineata continuamente dai gusti e dalle scelte di abbigliamento di Beth.
La miniserie realizzata da Scott Frank e Allan Scott non si limita dunque a mostrarci solamente l’ascesa di Beth nel mondo scacchistico, ma dedica una gran parte del suo tempo a tratteggiare il mondo reale – esteriore ma soprattutto interiore – con il quale la ragazza si trova ad avere a che fare quotidianamente, in costante confronto con il suo passato complicato, evitando peraltro di perdersi in derive moralistiche sulla parità di genere assolutamente non necessarie nell’economia complessiva della miniserie: è la ragazza stessa, anzi, a prendere la distanze da un discorso di questo tipo, cercando piuttosto di proporsi come l’equivalente femminile di Bobby Fischer nella sua ricerca della perfezione nel gioco. Il fulcro della serie risiede tutto qui, ed in particolar modo nell’importanza del coltivare i propri talenti, nello sviluppo del rapporto con l’alterità, nel superamento dei propri limiti, nell’accettazione degli errori e nell’affrontare le grandi difficoltà della vita. La regina degli scacchi non è una serie sugli scacchi, ma è anche una serie sugli scacchi, un’opera il cui obiettivo è la riflessione sull’essere umano, sulle sue potenzialità ma anche sulle sue imperfezioni, con il fine ultimo di riscoprire ciò che ci lega, nel profondo, l’un con l’altro.
Daniele Sacchi