La storia della Principessa Splendente di Isao Takahata, la recensione

La storia della Principessa Splendente

Canto del cigno e testamento poetico del maestro d’animazione Isao Takahata, La storia della Principessa Splendente è uno dei capolavori immortali realizzati dallo Studio Ghibli. Trasposizione cinematografica del Taketori Monogatari (Il racconto di un tagliatore di bambù), il più antico testo narrativo del Paese del Sol Levante, il film del 2013 di Takahata – l’ultimo diretto prima della scomparsa nel 2018 – coniuga folklore e mitologia con una storia struggente dallo straordinario lirismo visivo. Lo stile di animazione impressionistico, nello specifico, richiama il sumi-e, una pittura ad acquarello che Takahata trasforma in pura arte in movimento, grazie anche alla collaborazione con il rinomato art director, scenografo e background artist Kazuo Oga.

La storia della Principessa Splendente inizia in un giorno di primavera, quando un contadino trova all’interno di un fusto di bambù una creaturina che sembra una piccola principessa. La creaturina si trasforma in una neonata e l’uomo, sposato ma senza figli, decide di crescerla insieme alla moglie. La bambina, chiamata Principessa dal padre, cresce più rapidamente rispetto al normale, ma nonostante questa peculiarità riesce ad adattarsi presto alla vita rurale, facendo amicizia con gli altri bambini del villaggio e individuando nell’adolescente Sutemaru una figura guida. Quando però il padre scopre delle pepite d’oro nella stessa foresta di bambù in cui ha trovato Principessa, pensa di essere dinanzi ad un nuovo dono divino e decide di acquistare una residenza in città, preparando la figlia ad un futuro nobiliare che la vedrà adottare il titolo di Kaguya-hime, “Principessa splendente”.

Il film di Takahata si intesse così come una favola malinconica sul rapporto tra la ricerca di libertà e le costrizioni sociali, soffermandosi in particolar modo sulla condizione femminile nella società giapponese in un racconto che, grazie alla grande enfasi posta sulla soggettività emotiva della sua protagonista, riesce comunque a tendere all’universale. Nel passaggio dal mondo “reale”, quello del lavoro e della costruzione di rapporti concreti e veritieri, al mondo “regale” dell’agio e dell’apparenza, Kaguya finisce per ritrovarsi intrappolata in un contesto che la riduce a mero oggetto del desiderio altrui. Takahata sottolinea il tormento interiore e la solitudine della protagonista, sia attraverso la sua trasformazione in una nobile, con una servitrice predisposta ad hoc per il suo tutoraggio (che è anche fisico, pensiamo al momento in cui le vengono rimosse le sopracciglia per renderla inespressiva), sia attraverso piccoli dettagli come i paraventi che la separano costantemente dall’incontro con l’Altro.

La maestosa sequenza durante la quale Kaguya fugge disperata dai suoi doveri è un’ulteriore testimonianza di come le scelte di regia di Takahata separino La storia della Principessa Splendente dai comuni coming of age. Il mondo interiore della protagonista influenza sensibilmente il dominio del visivo: il tratto si fa incerto, i lineamenti della figura di Kaguya scompaiono progressivamente, la rappresentazione emozionale prevale su ogni possibile naturalismo. Questo aspetto irrazionale e “fantastico” ritorna a più riprese, a partire dalle missioni impossibili dai sottotesti mitico-orientali che Kaguya assegna ai suoi miserabili pretendenti, sino ad arrivare, nella seconda metà del film, alle rivelazioni circa le sue origini. È proprio in quest’ultima fase che il film di Takahata si eleva al sublime, sia nel suo voler finalmente abbracciare a tutto tondo le atmosfere fantasmatiche dell’onirico sia nel suo sottolineare l’importanza e il valore della libertà, in quello che è di fatto un capolavoro senza tempo.

Daniele Sacchi