«Parlare poco» è la ricetta secondo Aldo, il protagonista di Lacci di Daniele Luchetti, per un matrimonio tranquillo. La ricetta di Luchetti per la sua pellicola sembra essere invece quella del «parlare molto». Purtroppo Lacci, film di apertura della 77esima edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e adattamento dell’omonimo romanzo di Domenico Starnone, è un esempio perfetto di come il cinema italiano sia, da vent’anni a questa parte, una continua reiterazione delle solite dinamiche e delle solite narrazioni, incapace di guardare al di là di se stesso (con qualche eccezione ovviamente, pensiamo a Favolacce dei fratelli D’Innocenzo o a Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti).
Lacci, che vede tra i suoi interpreti principali Luigi Lo Cascio, Alba Rohrwacher, Laura Morante, Adriano Giannini, Silvio Orlando e Giovanna Mezzogiorno, è un’opera che dice tanto e che mostra molto poco. Un peccato, perché quando Luchetti si ricorda che i film sono fatti anche di immagini regala delle sequenze che – a modo loro e nei limiti della struttura del racconto – risultano intime, sincere e di un certo impatto. Più nel dettaglio, al centro della trama troviamo Aldo, la moglie Vanda e i due figli. Il matrimonio entra presto in crisi, complice anche un’infatuazione di Aldo per la collega Lidia, e la coppia si troverà così a dover decidere le sorti del proprio futuro e di quello dei bambini.
Una particolarità interessante del film è il tentativo di offrire allo spettatore una narrazione non lineare, mostrando anche alcuni flashforward che vedono la coppia come protagonista ben trent’anni dopo le vicende centrali della trama. In continuità con il percorso narrativo principale, se così possiamo definirlo, ciò che avviene nel futuro è a sua volta importante ai fini dell’economia complessiva dell’intreccio. Il problema del film di Luchetti, di fatto, non risiede nel racconto in sé – che comunque rientra nei canoni del già visto – bensì nel modo in cui viene messo in scena. Se da un lato il ricorso alla deriva non lineare altera la formula del dramma sentimentale, dall’altro lato la scelta non sembra procedere per una direzione precisa, e allo spettatore non resta che essere investito da dialoghi vuoti, litigi su litigi e banalità sull’amore e sulla famiglia.
Come si può facilmente intuire, le parole chiave sono trama, racconto, dialogo. Non c’è niente di male per un cineasta nel decidere di focalizzarsi solo su questi aspetti, ma bisogna anche saper trovare un equilibrio tra di essi. Se il focus di un’opera è il cercar di mantenere ancorata l’attenzione dello spettatore attraverso le forme della narrazione, allora bisogna anche essere in grado di sorprenderlo, non necessariamente perseguendo vie originali, visto che anche rimodulare il già visto può essere una strada percorribile, ma perlomeno evitando banalità di sorta come la necessità di spiegare per filo e per segno il significato del titolo del film, con un’operazione didascalica all’inverosimile. Una nota positiva? Le interpretazioni del cast sono ottime, sebbene penalizzate dalle lacune della sceneggiatura e dalla scelta un po’ vetusta di ricorrere a attori diversi per rappresentare le differenti età dei protagonisti, quando il ricorso al trucco per l’invecchiamento “artificiale” dei personaggi è ormai pratica diffusa. Un’apertura decisamente sottotono, dunque, per la 77esima Mostra del Cinema di Venezia.
Daniele Sacchi