L’immagine spettrale nel cinema

Kairo

Il seguente estratto consiste nell’introduzione del mio libro L’immagine spettrale nel cinema. Fantasmi e prigioni dello sguardoacquistabile a questo indirizzo.

Il cinema è, da sempre, una questione simulacrale. Ciascuna arte produttrice di immagini si trova, prima o poi, a dover fare i conti – per una via o per un’altra – con il dogma della referenzialità e con l’ossessione per il Reale. La caccia alla realtà e la presunzione della “necessità” della verosimiglianza sono lo spauracchio della settima arte sin dai suoi albori. Pensiamo al cinema delle origini, e più precisamente a L’uscita dalle officine Lumière, un film in (almeno) tre versioni che è, prima di ogni altra cosa, performance e mise-en-scène nel suo tentativo di ripresentare il Reale – o di presentificare, come direbbe Husserl – attraverso una cornice che è costitutivamente finzionale, tesa perlopiù a restituire un “immaginario” fantasmatico del Reale invece del Reale stesso. Eppure, lo spectrum come tratteggiato da Roland Barthes ne La camera chiara – colui che è fotografato, la datità che è spettro perché è “solo” immagine della realtà, tramutandosi da soggetto a oggetto – sembrerebbe non essere una prerogativa essenziale del cinema.

Nonostante il materiale fotografico che permea il cinema alla sua base, l’attenzione per Barthes viene spostata su altro, sugli inevitabili movimenti che allontanano lo spectator dall’immagine, perché quest’ultima non rivendica più la sua (dello spettatore, ma anche dell’immagine stessa) realtà. Da questo punto di vista, la spettralità dell’immagine sembra non avere niente a che fare con l’arte cinematografica. Questa prospettiva ideologica è, tuttavia, ancora legata a una concezione dell’immagine in quanto scarto e componente residuale del Reale. Per millenni l’immagine è stata considerata ontologicamente impura e “falsa” in quanto mera copia e illusione, omettendo volutamente dal discorso sul Vero tutte le implicazioni metafisiche che dipendono, diversamente, da un’idea di immagine che, proprio in quanto traccia del Reale e nella presenzialità della sua assenza, non può che costituire invece un importante tassello per poter ambire a comprendere al meglio tutto ciò che ci circonda.

Il medium cinematografico, in tal senso, è un baluardo fondamentale nella difesa della legittimità delle immagini come parte essenziale del discorso sul Reale. E il cinema, proprio in quanto medium, è un’arte mediale che vive di spettri. O, più precisamente, di immagini spettrali, di performance, di messe in scena, di “riproduzioni” e di “falsità” che, per richiamare Baudrillard, non possono che darsi come entità simulacrali più vere del vero e, al tempo stesso, più false del falso. La spettralità è una componente ineliminabile dell’immagine cinematografica e, forse, di ogni tipo di immagine, specialmente all’interno del tessuto del contemporaneo dove rimediazioni, mescolanze e ibridazioni sono all’ordine del giorno. Nel corso del Novecento, il dominio millenario della parola ha progressivamente lasciato spazio al dominio dell’immagine, ed è soprattutto oggi che l’immagine non ha più bisogno di restituire un’impressione strettamente “fotografica” per potersi pregiare – senza risultarne delegittimata – di essere spectrum e riflesso fantasmatico della realtà.

Il primo passo di questo tortuoso percorso euristico sarà l’esame dell’importanza dello sguardo femminile nel plasmare una precisa idea dello spettrale nel cinema. Senza voler subentrare nei territori d’indagine propri della feminist film theory dedicati allo studio del male gaze e delle peculiarità di uno sguardo scopofilo oggettivante, si procederà invece con il prendere le mosse dai margini, da quelle sospensioni derridiane, indefinite e astratte che si inseriscono tra le pieghe delle immagini come tracce dissolte di una presenzialità ineffabile. Per ambire a cogliere il fantasmatico in quanto pura emotività arcana – non la semplice datità, bensì il punctum, per restare di nuovo con Barthes – è necessario abbracciare la deriva frammentaria esibita dalla pluralità di sguardi femminili che, nel corso della storia del cinema, hanno contribuito a mettere in mostra, apertamente, lo spettrale e il sepolto. È il caso, ad esempio, dell’insolita trilogia di Robert Altman sulla crisi delle donne; oppure, è il caso dell’esistenzialismo duplice ed enigmatico di Persona di Ingmar Bergman; o, ancora, è il caso delle perturbanti ossessioni di cineasti come Olivier Assayas o Pablo Larraín.

Alla presa di coscienza del valore fondamentale della prospettiva femminile nel caratterizzare alcune sfumature del fantasmatico, seguirà una digressione più esplicita sulla traccia spettrale e sui suoi residui. Si parlerà di fantasmi veri e propri, come nel caso di Kairo di Kiyoshi Kurosawa o de Il sesto senso di M. Night Shyamalan, ma anche di fantasmi metaforici e, in alcuni casi, “metropolitani”, come nella rappresentazione di Taipei in Stray Dogs di Tsai Ming-liang o nel dualismo destabilizzante messo in scena nella Shanghai de Il fiume Suzhou di Lou Ye. Trait d’union di tutto ciò sarà l’incontro con l’inevitabile matericità dello spettrale, il lascito effettivo – e, per l’appunto, residuale – di un invisibile che diventa visibile, dove ciò che non può essere colto finisce per abbandonare lentamente la prerogativa di un punto di vista determinante per abbracciare, invece, l’idea di poter essere veramente concreto e tangibile. È il ritorno del rimosso, del sopito, del nascosto, qui esaminato sotto una lente di ingrandimento che mira ad esibire la sussistenza di un sommerso che, attraverso l’immagine, diventa consistenza e fisicità, sino a tramutarsi – per rimanere con l’analogia fantasmatica – in sostanza ectoplasmatica.

Si tratta, d’altronde, di un passaggio necessario per poter in seguito accettare la (cruda) realtà del fantasmatico come matrice indissolubile delle strutture di potere e di controllo che governano l’azione umana. Il “carcere ideale”, il panopticon benthamiano, assurge inizialmente come entità edificante di un Reale sottomesso alla costante messa in visibilità del soggetto, dove all’essere visti, e quindi a una condizione passiva in cui si è in mostra e si “subisce” la visibilità, corrisponde un movimento inverso, attivo e autoritario, non più subito ma attuato operativamente dall’entità osservante. Tuttavia, nella società del controllo profetizzata da Gilles Deleuze e che oggi appare più evidente che mai, al panoptismo di Bentham e Foucault non può che seguire la presa di coscienza della presenza di un’anti-struttura rizomatica a plasmare un Reale non più facilmente inquadrabile, un Reale nel quale le tassonomie e le categorizzazioni sono state soppiantate da una caosmosi che, tra le sue molteplici aperture, non può che comprendere anche ossimoriche chiusure e infiniti disorientamenti. Così, dalla cura Ludovico di Arancia meccanica – un nuovo pseudo-panottico benthamiano – si passa, ancora, alle cornici invisibili, ai margini e alle sospensioni: sono le retoriche della videosorveglianza di Niente da nascondere di Michael Haneke, sono gli orrori “normalizzati” de La zona d’interesse di Jonathan Glazer, sono le ambiguità e i dualismi di Enemy di Denis Villeneuve.

Progressivamente, la degerarchizzazione rizomatica travalica i confini del politico per abbracciare con vigore la crisi d’identità del soggetto, muovendosi attraverso fili invisibili che coinvolgono diversi spettri fondamentali dell’esperienza umana e, soprattutto, delle dinamiche che riguardano il funzionamento del nostro sguardo. Dal sentimento di oppressione scaturito da film come La conversazione di Francis Ford Coppola e Le vite degli altri di Florian Henckel von Donnersmarck, passando per l’indagine sull’immagine condotta da Michelangelo Antonioni in film come Blow-Up e Professione: reporter, i punti in comune sembrano essere pochi per opere tanto diverse nella forma e nei contenuti. A monte, invece, in questi film sembra sussistere una passione – dagli esiti spesso anche viscerali, pensiamo all’Harry Caul di Gene Hackman proprio nel capolavoro di Coppola – per i nodi impercettibili che legano a sé le vicende mostrate e raccontate, quei lembi di verità nascosti tra le pieghe incerte dell’immagine, marginalità ondivaghe chiaramente esposte ed evidenti quanto in realtà ben celate dinanzi allo sguardo spettatoriale, quell’illusione ingannevole – e perdipiù costitutiva, come dicevamo – del cinema in quanto medium simulacrale.

Dopo aver messo a nudo i meccanismi impliciti dell’immagine spettrale, il passaggio successivo non potrà che consistere nel cercare di esplorare la pura non-visibilità. Cosa c’è di meno visibile dell’invisibile stesso? Tanti cineasti operano attraverso princìpi di sottrazione, vere e proprie retoriche del vuoto e del silenzio che si protendono alla ricerca di una risposta “differente”, meno tradizionale, nei confronti dei misteri veicolati attraverso l’immagine cinematografica. Rivolgeremo uno sguardo ad alcuni film di grandi autori – come ad esempio Andrej Tarkovskij e Apichatpong Weerasethakul – nel tentativo di svelare qualcosa in più sul cinema e sulle sue possibilità, ragionando soprattutto sulla temporalità dell’immagine e sulla sua cristallizzazione. Citando le considerazioni del poeta simbolista Vjačeslav Ivanov, riprese da Tarkovskij nel suo Scolpire il tempo: il simbolo «possiede una molteplicità di volti e di pensieri ed è sempre oscuro nella sua remota profondità. Esso è una formazione organica, come un cristallo. Esso è persino una sorta di monade e in ciò differisce dalla struttura complessa e scomponibile dell’allegoria, della parabola o della similitudine». Ma, soprattutto, le immagini («quello che lui chiama “simbolo”, io lo chiamo “immagine”») sono indicibili e inspiegabili, «e noi siamo impotenti davanti al loro significato integrale e misterioso».

Questa riflessione propedeutica su quello che alcuni definiscono come slow cinema risulterà indispensabile, infine, per cercare di identificare un senso complessivo in quelle immagini che a modo loro, per citare lo storico dell’arte Horst Bredekamp, ci guardano. Autori come Abbas Kiarostami e Jordan Peele ci permetteranno di muoverci alla ricerca del trascendente, ribadendo ancora una volta la funzione proattiva dell’immagine spettrale nel suo voler (dis)orientare il nostro sguardo sino a giungere alla consapevolezza che, attraverso una costante affermazione della sua presenzialità, anche quando sembra all’apparenza manchevole o assente, l’immagine cinematografica finisce per irrompere irruenta nel nostro vissuto, graffiando lo schermo, superandone i margini, insinuandosi e proliferando nel Reale insieme a tutte le altre immagini di cui non siamo altro che echi e spettri.

Clicca qui per acquistare L’immagine spettrale nel cinema. Fantasmi e prigioni dello sguardo.

Daniele Sacchi