Invece di considerare L’infanzia di Ivan (1962) semplicemente come il lungometraggio d’esordio di Andrej Tarkovskij, sarebbe forse più corretto parlarne nei termini di quello che realmente rappresenta, ossia il punto di arrivo della sua formazione cinematografica. La pellicola, che il regista stesso definisce come la fine di uno dei cicli della sua vita, è la conclusione di un vero e proprio processo di autodeterminazione, un ponte per definire i principi della sua estetica e per individuare delle criticità e delle problematiche che avrebbe poi cercato di risolvere con le sue opere successive.
Dopo aver studiato al prestigioso VGIK di Mosca e dopo aver realizzato una serie di cortometraggi e mediometraggi scolastici, come il suo progetto di tesi Il rullo compressore e il violino (1961), Tarkovskij irrompe con L’infanzia di Ivan nel panorama cinematografico mondiale, conquistando peraltro il Leone d’oro per il miglior film (ex aequo con Cronaca familiare di Valerio Zurlini) alla 23esima edizione del Festival di Venezia. L’opera si basa sul racconto breve Ivan di Vladimir Bogomolov e doveva inizialmente essere girata da Eduard Abalov su una sceneggiatura di Mikhail Papava, che tuttavia fu considerata dai produttori come carente e troppo poco fedele alla storia originale. La riassegnazione del progetto a Tarkovskij permise al regista sovietico di consolidare ulteriormente il suo rapporto lavorativo con il direttore della fotografia Vadim Yusov, una collaborazione che, soprattutto nei suoi lavori successivi, sarà determinante nel tracciare alcuni dei punti fondamentali della sua estetica cinematografica.
L’infanzia di Ivan persegue una forma di rappresentazione della guerra inusuale, che lo rende a conti fatti un film estremamente originale nel suo sviluppo narrativo. L’intreccio racconta di Ivan, un ricognitore sovietico di 12 anni che combatte l’invasione tedesca al fronte orientale, in piena seconda guerra mondiale. Il ragazzino è abile a nascondersi tra le paludi del fiume Dnepr e l’esercito lo utilizza in particolar modo come fonte d’informazioni sugli spostamenti nemici. Lo scontro bellico tuttavia resta perlopiù sullo sfondo, e il film si focalizza nel dettaglio sulla figura di Ivan, mostrando allo spettatore le conseguenze della guerra sulla sua vita.
In tal senso, la narrazione segue una progressione non lineare ed è ricca di flashback, raccontati attraverso i sogni di Ivan. L’atmosfera onirica che pervade questi ricordi li rende tuttavia maggiormente significativi rispetto al valore che avrebbero avuto se presentati invece come delle semplici analessi, riuscendo pertanto ad illustrare a dovere il disagio psicologico del bambino stesso, ma creando allo stesso tempo un collegamento poetico tra la realtà della guerra e la vita precedente ai suoi orrori. Nello scontro dialettico che viene a determinarsi tra le due infanzie di Ivan, quella felice con la sua famiglia e quella terribile invece del fronte, si inserisce il desiderio di vendetta del bambino stesso, che non accetta di essere mandato nelle retrovie dai suoi superiori e che vorrebbe invece combattere la guerra in prima linea. La morte dei genitori e della sorella, causata dai soldati nazisti, alimenta in Ivan una tensione distruttiva che guida le sue azioni e le sue scelte: l’unica risposta alla consapevolezza della sua infanzia perduta è il tentativo di annichilire a sua volta l’altro, in una vendetta che nel suo tendere verso l’annullamento del nemico non può che avere come infelice conclusione l’annientamento di Ivan stesso.
«I ricordi più belli sono quelli dell’infanzia», scrive Tarkovskij in Scolpire il tempo. Nel rappresentare le memorie del passato di Ivan attraverso i suoi sogni, il regista sovietico cerca in particolar modo di allontanarsi da quell’idea che vede nel medium cinematografico un dovere testimoniale. Invece di presentarci la realtà fattuale dei ricordi del bambino, Tarkovskij si sofferma sugli aspetti emozionali di quei momenti, in modo da caratterizzare la personalità stessa di Ivan attraverso il suo pensiero e il suo mondo interiore: una logica peculiarmente poetica ed espressiva che prescinde da qualsiasi ricorso ad una visione documentaristica dell’immagine cinematografica.
Nel lavorare con le dimensioni della memoria e del sogno, Tarkovskij abbozza inoltre in via preliminare quello che nei suoi film successivi apparirà come un tema ricorrente e fondante: la temporalità. Il tempo per Tarkovskij, inversamente rispetto alla tradizione cinematografica classica, è un fenomeno che opera a partire dall’immagine stessa, prescindendo dalla ritmicità e dalla consequenzialità del montaggio. L’immagine cinematografica si istituisce come una vera e propria realtà temporale e sono gli elementi stessi che la compongono a definirla come tale. Ne L’infanzia di Ivan, questa peculiarità della sua visione estetica si manifesta a più riprese non solo quando sembra plateale, ossia quando la dimensione della temporalità viene direttamente chiamata in causa, ma anche là dove non è immediatamente riconoscibile, come ad esempio nelle lunghe sequenze in cui vengono riprese l’acqua, la palude, la terra. Il tempo si dilata e l’immagine sembra perdere la sua connotazione simbolica in favore di una rappresentazione asettica, pur celando dentro di sé una profondità spirituale che la rende paradossalmente molto espressiva.
L’infanzia di Ivan è dunque sì un punto di arrivo per Tarkovskij, un lavoro che dopo anni di studio ha confermato le sue abilità dietro alla macchina da presa, ma è anche un lavoro che, a posteriori, possiamo definire soprattutto come un ottimo punto di partenza. Un primo grande film, in preparazione di una carriera di capolavori inestimabili.
Daniele Sacchi