L’innocenza di Hirokazu Kore’eda, la recensione del film

L'innocenza

È il 1950 l’anno in cui nelle sale giapponesi esce Rashomon di Akira Kurosawa e, al cinema, la verità oggettiva cessa di esistere. Nella pellicola di Kurosawa, uno stesso evento può infatti esistere ed essere plausibile, in forme plurime e contrastanti, in un indeterminato numero di varianti. La vittima può essere al contempo il carnefice, una morte onorevole può essere una morte patetica, una storia d’amore una storia di odio. Si chiama effetto Rashomon, termine tuttora usato per descrivere come i filtri della percezione soggettiva, della memoria, e del linguaggio, non permettano, alla verità, l’esistenza in una sua forma assoluta.

Da allora, l’effetto Rashomon è una presenza costante nel cinema internazionale, in una serie di re-interpretazioni del cinema di Kurosawa (dal remake hollywoodiano in chiave western di Martin Ritt L’oltraggio, alla più recente lettura medievale di The Last Duel, diretto da Ridley Scott) più o meno riuscite. L’innocenza, ultima opera di Hirokazu Kore’eda presentata in concorso al 76° Festival di Cannes, è una storia tripartita che, ancora una volta, indaga sulla verità. Forse una delle riproposizioni più riuscite dell’espediente introdotto da Rashomon, in quanto L’innocenza non ne è una semplice “messa in scena aggiornata”, ma ne è una rivoluzione. Di fatto, se nel 1950 l’effetto Rashomon era monito della mancanza di affidabilità dell’interpretazione altrui, nel 2023 è declinato a evidenziare come la nostra interpretazione personale e, in prima persona, possa essere altrettanto inaffidabile. Inaffidabile e, nella sua tendenziale superficialità, pericolosa.

Il titolo originale de L’innocenza, ovvero Monster (Il mostro in italiano), se mantenuto sarebbe stato più calzante. Ad aprire il trittico di Kore’eda è infatti la storia di una madre, Saori (Sakura Andō) e di suo figlio, Minato (Soya Kurokawa), un ragazzino dai chiari segni di squilibrio, prevedibilmente il “mostro” della storia. Nella giovane madre nasce velocemente il sospetto che gli strani comportamenti di Minato siano dovuti al comportamento violento di un suo insegnante, il professor Hori (Eita Nagayama), in apparenza un uomo dal temperamento gentile. In tutta risposta, Hori accusa Minato di compiere frequenti atti di bullismo nei confronti di un suo compagno di classe, il mite Eri (Yota Hiiragi). Da un primo atto dai tratti tendenti al thriller è poi proprio quello del professor Hori il secondo punto di vista ad essere osservato da Kore’eda, che mette così in discussione una storia, nel suo incipit, quasi banale. Il terzo atto, lo svelamento del mistero, è finalmente nella prospettiva di Minato, e la sua esecuzione conferma la straordinaria capacità di Kore’eda nel portare sullo schermo un’emotività finalmente svestita da inutili orpelli.

Nel suo insieme, L’Innocenza costruisce e destruttura una rappresentazione attuale, ma allo stesso tempo inflazionata, del bullismo e del disagio giovanile, intrecciandola alla potente ma sottile critica verso la tendenza umana a schematizzare realtà complesse con etichette (e ruoli) semplicistici: amore e odio, amico e nemico, giusto e sbagliato. Le stesse immagini, dapprima claustrofobiche, opache al pari della lucidità percettiva dello spettatore, acquistano lentamente ampiezza e luminosità, culminando in una landa finale dagli accenni quasi onirici. A farne da cornice, le splendide musiche di Ryuichi Sakamoto, qui alla sua ultima colonna sonora. Ancora una volta, Kore’eda opta per la stratificazione, per l’ambiguità, per la scarsità di chiare colpe e ovvie virtù. Paradossalmente, è la narrazione grigia, a più piani, a rendere il messaggio dell’autore una facile evidenza. Forse, nella realtà non ci sono gli eroi. Ma non ci sono neanche i mostri.

Beatrice Gangi