Longlegs di Osgood Perkins, la recensione del film

Longlegs

Etichettato come uno dei migliori horror degli ultimi anni, esce oggi nelle sale Longlegs, scritto e diretto da Osgood Perkins. Il film, che scivola da metà anni ‘70 ai primi anni ‘90, da thriller psicologico a horror paranormale, che apre in 4:3 e chiude in 16:9, è, in linea di massima, ottimamente confezionato.

Longlegs si suddivide in tre atti, ed è il primo di essi, prettamente investigativo, a fungere da presentazione per la giovane protagonista Lee Harker (Maika Monroe), un’agente dell’FBI dalle capacità assimilabili alla preveggenza. Incaricata di rintracciare un criminale satanista noto, appunto, con lo pseudonimo di “Gambelunghe” (il Longlegs di Nicolas Cage), Lee scopre di essere il soggetto di un suo profondo e ossessivo interesse. Sul fronte interpretativo si trattano entrambe di buone performance, pur considerando la tendenza all’esagerazione caratteristica di Nicolas Cage che, per quanto sfori a tratti nel macchiettistico, risulta perlopiù funzionale in un personaggio volutamente straniante come quello di Longlegs.

Ad eccellere è il ricorso e la rivisitazione da parte di Perkins dei tropi di genere quali la rappresentazione a sottrazione dell’antagonista principale (basti citare Hannibal Lecter ne Il silenzio degli innocenti) e la modulazione dell’elemento satanico e paranormale. Una struttura a cui si associa la consapevole gestione della messa in scena degli stessi, quindi nell’utilizzo subliminale di trigger visivi e sonori, ottimali nel generare la tensione claustrofobica che permea costantemente la pellicola. Da sottolineare sono, in particolar modo, l’attenzione cromatica, basata su una triangolarità di colori base (bianco-rosso-nero), a cui fa da contrasto un “non colore” dalle tinte grigiastre dominante in loro assenza, e il lavoro di montaggio, brillante nell’alternare improvvisi incipit visivi e frequenti variazioni nella dimensione video.

Dove il film purtroppo zoppica è nell’inabilità di affermare un’identità propria non limitata a un comunque raffinato citazionismo. È di fatto difficile individuare elementi del film di Perkins – oltre al già citato sforzo tecnico – che non appaiano derivativi di opere non solo già esistenti, ma tendenzialmente più riuscite (ne sono esempio il già accennato Il silenzio degli innocenti di Jonathan Demme, ma anche Zodiac e Seven di David Fincher, Sinister di Scott Derrickson ed Hereditary di Ari Aster). Ne risulta una pellicola mai realmente in grado di superare il remix delle sue ispirazioni che, nell’inserire una forse eccessiva quantità di archetipi del genere (il serial killer, la perversione del rapporto genitoriale, l’elemento psichico e paranormale, l’immaginario dell’oggetto demoniaco, l’accenno alla sfera sociale e religiosa), fatica a svilupparne almeno uno in modo nuovo o soddisfacente.

A concludere, Perkins è stato in grado di proporre un horror senz’altro ben realizzato, ma il cui attuale titolo di “horror dell’anno” potrebbe essere maggiormente merito di un’aggressiva campagna marketing piuttosto che di una sua reale esemplificazione dell’apice del genere nel contemporaneo. In effetti, è proprio nell’attualizzazione dei prototipi di riferimento che il film risulta manchevole, e conseguentemente, poco interessante. Ironicamente, vi si specchia uno dei suoi elementi centrali, le belle bambole realizzate proprio da Longlegs, dalla fattura impeccabile ma da un nucleo interno, se non vuoto, decisamente fumoso.

Beatrice Gangi