Pedro Almodóvar torna alla Mostra del Cinema di Venezia a due anni dal Leone d’oro alla carriera e un anno dopo la presentazione del suo cortometraggio The Human Voice, questa volta però nel concorso principale. Madres Paralelas è puro Almodóvar, sarebbe sciocco d’altronde immaginarsi diversamente. Eppure, da una certa prospettiva, il regista spagnolo riesce comunque a proporci qualcosa di differente, affiancando ai suoi temi più cari un’intensità peculiare, tesa tra il dramma dell’individuo e uno sguardo che vuole essere invece più ampio e universale. Il punto di vista principale di Madres Paralelas, nello specifico, è incarnato nella figura di Janis, con Penélope Cruz che ci propone una delle migliori interpretazioni della sua carriera.
Il nuovo film di Pedro Almodóvar prende le mosse dalla storia delle due madri “parallele” del titolo, Janis e Ana (la semi-esordiente Milena Smit, sicuramente da tenere d’occhio per il futuro). Le due donne, entrambe soggette ad una gravidanza indesiderata, si conoscono in ospedale e danno alla luce le due figlie nello stesso istante. A partire da questo incontro quasi simbiotico, nonostante la differenza d’età e le difficili esperienze di vita – per motivi molto diversi – di entrambe, Janis e Ana maturano un rapporto particolare che le lega indissolubilmente, con il fato che si trova a giocare irrimediabilmente la sua parte. Una terza figura materna – questa volta non “parallela” ma incisiva a modo suo – che svolge un ruolo fondamentale nell’economia complessiva della trama di Madres Paralelas è Teresa (Aitana Sánchez-Gijón), la madre di Ana, con la quale la ragazza ha una relazione conflittuale, esplosa specialmente in seguito all’evento violento che ha portato alla gravidanza di quest’ultima.
Come anticipato, Madres Paralelas contiene tutto Almodóvar, dalla centralità della figura femminile ai rapporti ambigui e antitetici tra i personaggi, dall’intimità profonda che si viene a creare nell’esplorazione dei sentimenti sino ai dettagli più piccoli che riempiono il film di una toccante umanità. Oltre a ciò, troviamo canalizzata in Janis e nei suoi problemi dall’orizzonte duplice, individuale e collettivo, una precisa volontà di indagare una dimensione conflittuale che da un lato suscita in lei prima una scissione identitaria e dall’altro lato un tentativo di ricomposizione.
A corroborare tutto questo vi è una fotografia (curata dal frequente collaboratore di Almodòvar, José Luis Alcaine) dai cromatismi meno vividi e accesi rispetto al solito per suggerire anche visivamente la presenza di un piano espressivo meno esuberante e più legato ad una visione dilemmatica dell’essere umano. Forse, proprio per quanto detto sino ad ora, la decisione di approfondire anche il lato relativo alla memoria storica sembra fare un passo più in là rispetto a quello che è il tono complessivo dell’opera, sottoponendo alla dimensione del trauma collettivo un peso troppo pressante sull’intreccio, direzionato da tutt’altra parte, lasciando dunque una sensazione – seppur marginale – di incompiutezza di fondo.
Daniele Sacchi