Lo scorso anno alla Mostra del Cinema di Venezia, Tár di Todd Field prendeva le mosse dal tema musicale per riflettere sulla cancel culture, sulla percezione spettatoriale, sulla volontà di potenza. Quest’anno, in concorso all’80esima edizione della Mostra, Maestro di Bradley Cooper parte a sua volta da uno scenario che vede la musica al suo centro, focalizzandosi nello specifico sulla vita dell’acclamato direttore d’orchestra e compositore Leonard Bernstein, per concentrarsi su questioni umane più universali, sulle trame del desiderio e del vissuto umano.
Il film si sofferma nello specifico sulla relazione tra Bernstein (interpretato dallo stesso Cooper) e la moglie Felicia Montealegre (Carey Mulligan). Il rapporto che lega la coppia fa da trait d’union a tutto il resto, istituendosi come elemento fondamentale per cercare di comprendere l’uomo che si cela dietro al suo successo e all’estro creativo delle sue opere. Dal debutto come direttore d’orchestra per la New York Philharmonic alla Carnegie Hall nel 1943 come sostituto di Bruno Walter sino ad arrivare alla sua lunga carriera di compositore, il Bernstein di Cooper emerge realmente solo nel momento in cui i suoi tumulti interiori vengono a galla, dalle relazioni omosessuali extraconiugali allo stile di vita dissoluto.
Al di là delle performance musicali, durante le quali Bradley Cooper dà il meglio di sé a livello attoriale, Maestro è soprattutto un’opera sentimentale, emotiva, a tratti anche struggente. Ed è in questo spazio che Carey Mulligan finisce per rubare completamente la scena al suo collega. La vera protagonista di Maestro, infatti, è Felicia, insieme al suo amore e al suo odio, al suo essere una figura centrale e allo stesso tempo marginale, in un paradosso costitutivo che non può che generare tensioni e scontri. È un racconto dolceamaro quello del film di Bradley Cooper, che da un lato celebra il lavoro di una grande mente artistica ma che dall’altro lato indaga i limiti delle relazioni umane, i punti di incontro e di separazione, gli alti e i bassi di una vita sicuramente non ordinaria.
La direzione della fotografia di Matthew Libatique è impeccabile, specialmente nel passaggio equilibrato dal bianco e nero del periodo di gioventù di Bernstein alla vividezza della seconda parte del film, così come l’impresa del reparto make up nello smorzare i connotati di Bradley Cooper per avvicinare il suo volto a quello del direttore d’orchestra. L’unico difetto risiede più che altro nella raffigurazione del Bernstein giovane, troppo perfetto e tirato a lucido (probabilmente con qualche ritocco in digitale) per risultare credibile fino in fondo.
Per quanto riguarda il Cooper regista, Maestro è un film molto più equilibrato rispetto al precedente A Star is Born. Questa volta i tempi drammatici sono ben ponderati e le immagini confluiscono l’un con l’altra senza soluzione di continuità, tra epoche diverse, segmenti musicali, amori e litigi. L’unico vero problema è di impostazione. Cooper sembra quasi voler imitare Spielberg – il quale figura tra i produttori, tra l’altro, insieme a Martin Scorsese – nel pensare il suo film come uno strumento rivolto non solo al pubblico, ma anche all’industria cinematografica stessa. Solo che Cooper non è Spielberg, e da questo punto di vista il suo Maestro appare platealmente sia come un film d’autore in cerca di legittimazione, sia come un biopic strappalacrime a caccia di Oscar (che, peraltro, evita accuratamente di inoltrarsi nel vissuto politico di Bernstein). Un’operazione sicuramente furba, ma che comunque merita di essere vista.
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Daniele Sacchi