Megalopolis, la recensione del film di Francis Ford Coppola

Megalopolis

Megalopolis, il titanico progetto a lungo sognato da Francis Ford Coppola, è la tipica operazione che è interessante più per il suo contesto extrafilmico che per ciò che effettivamente mette sul piatto dal punto di vista cinematografico. Scritto negli anni ’70 (una prima bozza che nelle decadi successive è stata rivista più volte), finanziato di tasca propria con una cifra monstre che si aggira attorno ai 120 milioni di dollari, presentato in pompa magna durante l’ultima edizione del Festival di Cannes: la “storia” attorno a Megalopolis, nonché il suo pitch comunicativo, si scrive da sé. Non sono mancate poi le polemiche, a partire dai presunti disagi sul set sino ad arrivare a una discutibile campagna di marketing che ha fatto parlare in particolar modo per il suo ricorso a un trailer infarcito da citazioni di critici (alcuni scomparsi, come Roger Ebert) realizzate con l’intelligenza artificiale, situazione che ha portato il distributore americano Lionsgate a eliminare il contenuto dal web e a scusarsi pubblicamente.

Si è parlato molto negli ultimi mesi di tutti questi eventi, ma mai realmente del film in sé. Perché Megalopolis, a conti fatti, è un disastro colossale. È la visione senza filtri di un creativo ottuagenario che non ha più niente da dire, un delirio che mira ad una sovversione non solo concettuale ma anche visiva, pur non riuscendo mai a darsi realmente come tale. Una rivoluzione “ordinata” che si muove da una sequenza kitsch all’altra, alla ricerca di vacui shock che non sorprendono e non graffiano mai, dove il problema più grande è che Coppola ci crede davvero, come d’altronde riflesso dal suo alter ego nel film, l’architetto Cesar Catilina interpretato da Adam Driver, il quale progetta la costruzione di una città utopica (Megalopolis, appunto) nella speranza di una nuova ripartenza sociale, in opposizione alla decadenza della capitale statunitense, New Rome, governata dal sindaco Cicero (Giancarlo Esposito).

Al centro del conflitto del film troviamo dunque due figure contrapposte, modellate – con tanta fantasia – su Cicerone e sul generale Catilina. Coppola rilegge il contemporaneo inscenando una tragedia romana che cerca di scavare nei drammi della società statunitense (forse la sua pretesa è persino universale e totalizzante) per proporre una soluzione riunificante, una Weltanschauung esposta attraverso la giustapposizione tra vacui sofismi – i confronti tra Catilina e la figlia di Cicero, Julia (Nathalie Emmanuel), sono di una banalità disarmante – e il kitsch più pacchiano. Da quest’ultimo punto di vista, l’unica nota a favore di Megalopolis è da ricercare nelle interpretazioni estremamente sopra le righe di Aubrey Plaza e di Shia LaBeouf, rispettivamente i personaggi di Wow Platinum e di Clodio, i quali sembrano essere gli unici consapevoli della bassezza incontrollata alla quale stanno prendendo parte.

Megalopolis si erge come un monolite egomane che pretende non solo di interpretare correttamente la contemporaneità (e già questo sarebbe da dimostrare), ma di ridurne le complessità con lo scopo di perseguire una risposta ai suoi drammi che, al massimo, può ambire a suscitare un’effimera rassicurazione. Non si tratta di un esame polanskiano dello sterco sociale alla The Palace, pseudo-cinepanettone il quale possedeva almeno la consapevolezza di abbracciare a piene mani l’orrido e il camp per rappresentare l’abiezione, bensì di un’analisi disfunzionale che crede in tutto e per tutto di essere “alta”. In più, prima di arrivare agli esiti effettivi del discorso portante del film, lo spettatore deve sopravvivere a sequenze mai realmente a fuoco, a partire dagli esiti discutibili del concerto di una popstar simil-Taylor Swift (Grace VanderWaal) sino ad arrivare alla (semplicistica) apocalisse causata dallo schianto di un satellite russo (chi l’avrebbe mai detto?), per non parlare della messa in scena delle misteriose abilità di manipolazione temporale di Catilina e dell’erezione assassina di Crasso (Jon Voight). Il tutto condito da una CGI assolutamente non al passo con i tempi che contribuisce a rendere Megalopolis una vera e propria tortura, non solo per lo sguardo, ma anche per l’intelletto.

Daniele Sacchi