Memoria, la recensione del film di Apichatpong Weerasethakul

Memoria

Memoria è un film di ricerca. Ricerca spirituale, ricerca delle proprie origini, ricerca di risposte al dramma dell’esistenza. Il regista thailandese Apichatpong Weerasethakul, già vincitore della Palma d’oro nel 2010 per il meraviglioso Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti, si è aggiudicato il Premio della giuria lo scorso anno al Festival di Cannes per la sua ultima incursione nei territori del metafisico. Perché Memoria, in linea con le necessità espressive del suo autore, è un ulteriore viaggio alla scoperta dell’ineffabile, di una materia ignota che, persino con un’eventuale “spiegazione” che la supporti, forse non potrà mai essere realmente abbracciata in pieno.

Tilda Swinton è la scozzese Jessica, in visita a Bogotà per incontrare la sorella malata. Di notte, Jessica sente frequentemente un forte boato che le impedisce di dormire. Aiutata da un tecnico del suono di nome Hernán, Jessica cerca di ricostruire ciò che sente nel tentativo di dare una forma concreta a quanto le sta accadendo. La scomparsa improvvisa dell’uomo, insieme al vagare errante di Jessica, confluiranno in un insolito punto di incontro quando la donna farà la conoscenza di un pescatore chiamato a sua volta Hernán, con il quale si lascerà trascinare da un reciproco scambio di ricordi che, sorprendentemente, accomunano entrambi.

Un film di ricerca, dunque, ma anche un’opera di ricostruzione, in grado di individuare nella matrice del ricordo e della memoria una fonte determinante per cercare di attribuire un senso ai propri misteri, senza che l’ossessione del significato si ponga necessariamente come punto di arrivo fondamentale nel progressivo percorso di scoperta della protagonista. In Memoria la ricerca/ricostruzione delle frontiere del vero mette tra parentesi la scienza per lasciarsi travolgere da un misticismo che predilige l’incontro con l’alterità, la comunione di intenti, l’accettazione dell’inspiegabile.

L’unica parentesi scientifica che per Apichatpong Weerasethakul può permettersi di restare aperta è quella archeologica. Nel corso del suo peregrinare, Jessica entra in contatto con l’archeologa Agnes (Jeanne Balibar), in procinto di studiare alcuni resti umani datati migliaia di anni. Per il regista thailandese, l’archeologia come studio dell’antico, dell’originario, del primitivo non è solo parte di un discorso culturale più ampio sul sapere e sulla Storia, ma è anche un processo di cristallizzazione e di archeologizzazione individuale che coinvolge anche la storia – con la s minuscola, questa volta – di ciascuno di noi.

Nell’estetizzazione di tale processo, Apichatpong Weerasethakul resta fedele al suo modus operandi profondamente meditativo, affidandosi ancora una volta ad una cornice composta perlopiù da lunghi piani sequenza statici. I reali movimenti sono quelli interni all’immagine stessa, fugaci e occasionali impressioni di un sentito lirismo visivo capace di generare una perfetta sintesi tra una dimensione spiccatamente realista e il reame del fantastico e del contemplativo, una sintesi nella quale rumori sordi e tracce mnemoniche assurgono a simbologie ancestrali e primigenie.

Daniele Sacchi